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Shock da globalizzazione PDF Stampa E-mail

15 Febbraio 2015

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Da Rassegna di Arianna del 10-2-2015 (N.d.d.)

 

Il fenomeno della globalizzazione ha preso le mosse negli ultimissimi anni ottanta, dopo una gestazione ventennale, ed ormai è al quarto di secolo, un periodo sufficiente ad individuare alcune delle sue principali tendenze e caratteristiche. Non c’è mass media, partito politico, impresa o singolo intellettuale che non affermi che tutto è cambiato con la globalizzazione, che siamo entrati in una fase storica diversa in cui occorre predisporsi ad un continuo mutamento.

Ma, all’atto pratico, l’osservazione suggerisce –almeno in Occidente- che imprese, partiti, mass media ed anche intellettuali continuano a comportarsi nei modi consueti: tutto viene letto sulla base di analogie con il passato (la crisi? È una ripetizione del 1929. Il disordine mondiale? È la riproposizione del periodo che precedette la prima guerra mondiale. L’incontro con altre culture? Già visto nel cinquecento e sono gli altri che debbono accettare la cultura più avanzata, quella occidentale ovviamente).

I fatti stanno prendendo una direzione molto diversa da quella prevista e le analogie con il passato servono a poco per capire le tendenze in atto: la crisi finanziaria, imprevista ed imprevedibile, è curata con costanti iniezioni di liquidità (come se fosse quella di ottanta anni fa) che però hanno effetti sui sintomi ma non sulle ragioni del male oscuro, le rivolte arabe, anche esse impreviste, segnalano una interdipendenza stretta fra crisi economica e dinamiche socio culturali che sfugge alle capacità di gestione della comunità internazionale, lo sviluppo cinese ha mutato i rapporti di forza esistenti ma porta con sé problemi insospettati e così via.

Questo determina un profondo disorientamento soprattutto (ma non solo) nelle classi dirigenti che si trovano ad affrontare problemi ad un livello di complessità incomparabilmente maggiore del passato; e questo disorientamento già sta producendo effetti molto negativi sul piano delle decisioni. È lo shock da globalizzazione, il fenomeno più rilevante della nostra epoca che si impone al centro dell’attenzione di storici, sociologi, economisti, politologi ecc.

Almeno per quel che riguarda l’occidente, lo shock sembra determinare tre fenomeni: la paralisi dei decisori, la paura dei governati e l’afasia degli intellettuali.

I decisori appaiono sempre più indecisi sul da farsi tanto sul fianco finanziario (dove l’unica cosa che riescono a decidere è l’inondazione di liquidità, che fa guadagnare tempo ma non cura la crisi), quando sul piano delle relazioni internazionali (e le esitazioni americane su Iran, Siria e Califfato ne sono una testimonianza, non meno che il pantano ucraino da quale nessuno sa come uscire). Di fronte ad un corso dei fatti del tutto imprevisto, i decisori (tanto politici quanto finanziari) reagiscono schierandosi a difesa dell’esistente e senza chiedersi se le patologie socio-economiche in atto non siano un prodotto di quel sistema che rifiutano costantemente di mettere in discussione.

I governati, cui era stato promesso che la globalizzazione sarebbe stato un cammino fiorito, assistono impotenti al crollo di queste aspettative, al peggioramento delle loro condizioni di vita ed avvertono sempre più la paura del futuro. Paura dei diversi che giungono dal sud del Mondo e che si pensa minaccino posti di lavoro ed identità culturale, paura della crisi che erode risparmi e getta nella disoccupazione, paura della concorrenza delle merci straniere che tagliano l’erba sotto i piedi alle nostre aziende, paura di un fisco sempre più vorace che programmaticamente non colpisce più i grandi capitali volati nei paradisi finanziari, ma si accanisce sui ceti medi, paura del terrorismo, delle epidemie, di tutto.

E su tutto questo impera il chiassoso silenzio degli intellettuali che parlano di tutto senza dir nulla. Una critica della globalizzazione e dei modi con cui si è realizzata e va avanti è tentata solo da pochissimi spinti ai margini e privi, in gran parte, di accesso alle tribune mass mediatiche. C’è una sottile vendetta della storia che punisce chi aveva imposto il “pensiero unico”: democrazia liberale (o quel che si pensava fosse tale) e liberismo economico erano l’unica forma di pensiero legittimata, tutte le altre correnti di pensiero, pure interne al mondo occidentale. La resa senza condizioni della socialdemocrazia ha segnato la riduzione ad uno dello spazio politico: tutto il resto ne era espulso. E il rullo compressore della finanza, attraverso gli opportuni finanziamenti, la direzione dei mass media, il controllo dell’industria culturale, la colonizzazione delle facoltà, persino l’uso calibrato del premio Nobel, tutto è stato usato per imporre questa dittatura culturale.  E gli intellettuali –in grande maggioranza- si sono adattati gioiosamente a questo stato di cose, rinunciando ad ogni residuo spirito critico.

Oggi, nel momento della crisi, i decisori –non meno che i governati- non trovano le parole per capire quel che sta accadendo, e non sanno riconoscere la crisi in atto. E questo accade perché dal fonte degli studiosi, dei “tecnici”, di quelli che dovrebbero illuminarli, viene solo un confuso starnazzare che non dice nulla. È questa la rumorosa afasia degli intellettuali.

 

Aldo Giannuli 

Commenti
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xex@victoryproject.net
lorenzo (Registered) 16-02-2015 23:06

Certo, ma oltre alla rivoluzione così come siamo abituati a concepirla, cosa può fare chi riconosce quanto dice Giannulli?
Se l'establishment ruota confuso su se stesso incapace di prendere decisioni idonee alle sorprese della nuova complessità, forse anche la rivoluzione è obsoleta.
Oltre agli intellettuali che possiamo chiamare tali e dei quali possiamo evidenziare l'allineamento e la carenza di creatività, ci siamo noi. Altrettanto intellettuali, semplicemente meno disponibili alla ribalta o - per ora - a quella aspiranti.
Ecco, noi, che stiamo facendo oltre alla denuncia intellettuale?
Oppure, la denuncia intellettuale è quanto crediamo di dover fare e poi basta o c'è un seguito, almeno tratteggiabile?
Lo chiedo e la considero una domanda banale sebbene poco in circolazione. Ma lo chiedo anche perché nel criticare non leggo mai, neppure in forma di postilla seppur necessaria secondo la cosiddetta onestà intellettuale, che chi DEVE scegliere occupa posizione diversa dalla nostra, sostanzialmente alla finestra. Tralascio il seppur importante discorso sulle ragioni coniugate alla delega della politica, crogiolo della democrazia rappresentativa e dunque sui diversi (tra noi e loro) doveri. Chiedo di concentrare l'attenzione sul ruolo di chi non può (per modo di dire) parlare e deve invece fare. Chiedo di concentrarci sui nostri personali rapporti interpersonali. E su questi chiedo: non è vero che alcuni di questi vanno in direzioni non auspicate? Chiedo: se noi, quando siamo nel ruolo di dover scegliere in contesto interpersonale, quindi con una complessità per certi aspetti minore di quella sociale e internazionale, non siamo in grado di condurre in porto la relazione, non possiamo trarne una metafora non solo di critica politica? Non potremmo, voglio dire, riconoscere la difficoltà di chi stiamo criticando fosse anche solo per una ragione politico-strategica, ancor prima che culturale e umana?

Con le fazioni; con l%u2019identificazione con il sentimento dell%u2019odio; con l%u2019identificazione con l%u2019idea di essere una parte isolata dal tutto; con la separazione dall%u2019altro; con l%u2019impiego del principio dell%u2019oggettività (il neologismo è mio, spero dica qualcosa a tutti); con l%u2019attenzione alle vicende umane su uno sfondo che non è mai abbastanza la Terra; con la prevaricazione di un linguaggio politico anche da molti che condividono la prospettiva prepolitica; con dei modi di essere e di fare che dimenticano che la realtà non è fuori, là, in attesa di noi, ma che è nelle relazione; con la dimenticanza - forse considerevolmente grave - che nei grandi numeri (sempre gergo personale, privo di ambientazione squisitamente matematica) si creano dinamiche estranee a quelle possibili nei piccoli e che quindi trasferire quelle fatte inter nos su territori intra nos è inopportuno, quantomeno per le incommensurabilmente differenti inerzie, non pare si possa portare la storia verso una direzione ove il terreno della ripetizione di se stessa le venga a mancare, anzi. Con quanto elencato su, la storia tende a mantenere e ad alimentare, con forme del proprio tempo, tutte le dinamiche necessarie affinché il suo ciclo si ripeta.

Chi alla domanda: ma è possibile interromperlo? non cerco di dover dare risposta e la risposta che comunque mi esce non è investita di credito alcuno. Credo invece che operando direttamente per creare una realtà secondo gli opposti a quanto su tratteggiato si alzi il rischio di diffondere l%u2019idea che, sì, è possibile interromperlo.
È vero, l%u2019amore, è stato movente di precedenti tentativi, evidentemente falliti. Tuttavia ora disponiamo di consapevolezze e di razionalizzazioni mai tanto diffuse e - azzardo facile - in crescita.

Tutti, se legittimati, tendono ad essere più disponibili all%u2019ascolto. Tutti se delegittimati, tendono ad essere più disponibili all%u2019arrocco. Tutti possiamo riconoscere dove, come e quando aggiornare le nostre espressioni affinché - per quante buone idee contengano - conducano là dove la storia da sola non andrebbe a vivere.
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