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Dialettica del meticciato PDF Stampa E-mail

3 Ottobre 2015

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Da Appelloalpopolo del 2-10-2015 (N.d.d.)

 

Il VI capitolo della celebre monografia che Sallustio dedica a Catilina si apre con una breve rievocazione delle origini (archaeologia) dell’urbs romana. Secondo la tradizione accolta dall’autore, Roma nasce dalla fusione di due comunità molto diverse per stirpe, lingua e costumi: da una parte i Troiani guidati dall’eroe Enea, dall’altra gli Indigeni (“Aborigenes”), che Catone il Vecchio, probabile fonte dello storico, considera Greci emigrati nel Lazio molte generazioni prima della guerra di Troia. Sallustio descrive gli Indigeni come un popolo rozzo, privo di leggi e di organizzazione politica (imperium) ma libero e indipendente: per contrasto, non è difficile vedere nei Troiani i superstiti di una civiltà urbana raffinata ma sconfitta e decaduta.

Che cosa accade allora? Coabitando entro uno spazio ben delimitato, le mura di Roma (“in una moenia convenere”), i due popoli si mescolano con una facilità e una rapidità che hanno dell’incredibile: presto “quella moltitudine dispersa e vagabonda” di profughi e di nomadi diventa una nazione ricca e potente. Il miracolo è potuto accadere “grazie alla concordia”, osserva lo storico – ed è una precisazione determinante -, cioè sulla base del pathos dettato dalla condivisione di una condizione, di una visione, di un obiettivo, politico e non solo (qualche studioso sostiene che Roma, anche se Sallustio non lo dice, nascesse come città santa).

Il sinecismo di Troiani e Indigeni segna l’indispensabile transizione dall’incertezza esistenziale dell’esule e del selvaggio alla sedentarietà e alla costruzione di un’etnicità dinamica, duttile, che fatalmente si nutrirà fino all’ultimo di continue ibridazioni più o meno dosate e, come dimostra l’intera storia romana, rivelatesi in fondo vincenti. Ancora nei momenti drammatici del tramonto saranno proprio due grandi generali “mezzosangue”, Stilicone ed Ezio, a difendere l’impero dai barbari.

Di segno contrario è il meticciato nomade imposto oggi dal capitale globalista e celebrato dalla retorica degli united colours, delle “razze nuove” – rappresentazione tanto ammiccante quanto falsa, perché trascura le inevitabili differenze e i punti di frizione nel rapporto fra nazionalità o civiltà o fra aspetti particolari di nazionalità e civiltà. Qui, insomma, non è in gioco la formazione di nessuna nuova civitas ma la demolizione teorica e pratica della categoria di “popolo”.

Il nomade, avverte minacciosamente Jacques Attali, sarà l’archetipo umano del XXI secolo. Il ritorno in nuove forme allo stadio preistorico o prepolitico si sta realizzando con una sostanziale, tragica differenza rispetto agli Indigeni di Sallustio: il binomio libertà-indipendenza caro a Mazzini è appannaggio delle sole élite finanziarie mentre i popoli, schiavizzati, subiscono un devastante processo di svuotamento della memoria collettiva che rischia di sfociare in reazioni violente.

Sia chiaro: il passato e l’identità non sono feticci da idolatrare. Il culto fanatico dei morti è distruttivo come l’esaltazione del nuovo in quanto tale. Ma nella vita del popolo italiano, che già nel Trecento (sostiene A. D. Smith) aveva sviluppato un sentimento di solidarietà nazionale, la longue durée della tradizione ha un peso enorme e ogni tentativo di innesto di apporti allogeni deve tenerne conto.

Non c’è nessuna mutazione antropologica che tenga: Italia non facit saltus.

 

Giampiero Marano 

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