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Macchie di sangue sul tailleur PDF Stampa E-mail

2 Dicembre 2015

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Da Victoryproject del 30-11-2015 (N.d.d.)

 

Il crollo del muro di Berlino oltre che fatto fisico lo è stato concettuale e simbolico. Ha provocato dinamiche che le relazioni degli elementi in gioco fino a quel momento non facevano sospettare. Una di queste riguarda la dissoluzione del corpo e dell’identità delle entità destra e sinistra. L’idealismo è da allora in agonia, prolungata da un accanimento terapeutico perpetrato da molti. Inconsapevole ricerca della loro stessa sopravvivenza politica. Contemporaneamente all’idealismo, crollato insieme al muro, dalla polvere delle macerie è emerso con vigore un crescente edonismo, figlio adolescente e ambizioso di quegli stessi genitori ideologici rimasti sepolti nell’abbattimento. L’abbacinante promessa del capitalismo della distribuzione della ricchezza, nel frattempo, almeno per i primi in coda, si era avverata. Sull’onda esilarante i figli di chi aveva creduto in qualcosa e sgobbato duro, presi dalla foga azionaria, guardavano al futuro prossimo e guadagnavano solo per se stessi. Purtroppo lo zio (Sam) non aveva previsto o non ci aveva detto che insieme alla promessa di un benessere in espansione, avremmo dovuto sostenere qualche controindicazione. Per esempio, la celebrazione a 360 gradi del liberismo - che ne implica una di pari portata nei confronti dell’individuo e del libero arbitrio, suo più bel giocattolo - ha fatto da perno alla liquidità dei valori ben precisata da Baumann.

Praticamente ciò che prima nasceva, cresceva, si affermava, generava, tramandava entro solchi identitari, permetteva a noi di essere e all’altro di essere riconosciuto. Ma è un processo che non avviene più nel mondo globalizzato. I solchi si sono riempiti di tecnologia, beni, denaro, scorie, ambizioni, rinnegazioni, pretese, emancipazioni, si sono mescolati nel crogiolo dell’alchimia democratica convinti di sublimare definitivamente in oro i diritti individuali. Insieme al crollo del muro, molto è cambiato in Europa e in occidente. Una buona parte di noi non aveva previsto molte conseguenze. Abbiamo preso coscienza del suo significato epocale, della sua rilevanza storica, ma solo successivamente di quella geopolitica. Venendo a mancare la polarità sovietica, era venuta a meno la dialettica dei due blocchi che si contendevano l’egemonia del mondo. Soddisfatti per l’insuccesso del comunismo e convinti d’aver raggiunto il punto di pace permanente, non abbiamo creduto di dover studiare il comportamento delle monadi sociali che ci eravamo sempre ritenuti in diritto di sfruttare. Con modalità di aggregazione differenti da quelle tipiche della nostra biografia, altre idee, altri spiriti e altri uomini si sono aggregati sotto il naso delle nostre intelligence. Sono diversi in tutto, anche nel modo di intendere la guerra. Ma questo forse non tanto perché prodotti di una cultura differente, dove il diritto individuale non ha la consistenza che pensavamo universale, quanto perché, come vittime di un sopruso, non possono che aspirare al riscatto, non possono che farlo con i mezzi e il dominio di idee che hanno. Faremmo diversamente? La curva varicosa della storia ci ha presi di sorpresa, noi razionali, certi dell’universalità della ragione e contemporaneamente dell’inconsistenza di tutte le altre forme di conoscenza, esistenza e società. Nella nostra reazione c’è paura vera, sgomento formale, indignazione populistico-politica, ritardo organizzativo, inadeguatezza strumentale, inferiorità psicologica, inopportuna superiorità tecnologica, logistica inadeguata. Nel caos si rimescolano le cose, torna a galla anche il medioevo o meglio la sua caratteristica inquisitoria e i suoi metodi esplicitamente coercitivi. Forse per questo la Francia ha ritenuto di poter derogare il rispetto della Convenzione europea dei diritti umani. Ma non era una nostra conquista, ora così scontata, celebrazione del razionale, giusta e universale e anche cristiana? O usiamo anche noi i mezzi che abbiamo? E, nell’arida piatta culturale, un tempo terra di idee cresciute nei solchi perduti dei valori prepolitici, non siamo tornati con quella deroga verso il campo aperto della legge del più forte, quella che quando colpisce fa sangue? Non quella che subdolamente (signorilmente, dicono alcuni) abbiamo impiegato per decenni, quella che uccideva anch’essa ma che aveva il vantaggio di non farci sentire le urla e gli strazi delle nostre vittime. Anche se loro sono fatti dei nostri stessi sentimenti, non sentono le nostre di urla, né il nostro strazio o il nostro sgomento. Non tanto perché il nostro dolore li faccia godere di soddisfazione, quanto perché non hanno voluto colpire uomini, donne, bambini, innocenti, civili, nomi e cognomi, sorrisi, carriere e speranze, promesse, credenti e devoti, bensì perché hanno colpito rappresentanti, emblemi della forza che li vuole sottomessi ad economia e cultura che non è loro. Così, alla faccia nostra e di chi è stato colpito, non hanno sparato a persone, non ne hanno sentito la disperazione dell’ultimo respiro.

Il nemico è prima di tutto un simbolo. Drammaticamente, anche in questo confronto tra noi e loro non c’è differenza con quanto, e per primi, abbiamo fatto. Come appunto la storia ci aveva insegnato a credere, abbiamo considerato il nostro fare imperialistico come un fatto relativo alla dialettica della storia, governabile col denaro e male che vada con la guerra. Gli effetti geopsicologici e geopolitici eclatanti dagli anni 2000, ci sono stati oscuri fino ad altri fatti conclamati. Quelli per i quali sarebbe stato utile adoperarsi per una politica estera meno incline a sostenere il nostro benessere, la nostra tecnologia e il nostro dominio, meno incline a sorvolare alto le ragioni altrui, dove l’aria non è mai sporca di fango e di sangue.

Lorenzo Merlo 

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