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Né cosmopoliti né xenofobi PDF Stampa E-mail

25 Giugno 2016

 

Da Appelloalpopolo del 22-6-2016 (N.d.d.)

La questione dell’identità (nazionale, culturale, ecc.) ha un ruolo centrale nel dibattito sull’immigrazione. A questo proposito, si impongono di primo acchito due osservazioni. La prima consiste nell’osservare che, se si parla molto dell’identità della popolazione d’accoglienza, si parla in generale molto meno di quella degli immigrati stessi, che sembra tuttavia, e di gran lunga, la più minacciata dal fatto stesso dell’immigrazione. In quanto minoranza, gli immigrati subiscono infatti direttamente la pressione dei modi di vita della maggioranza. Votata alla cancellazione, o al contrario esacerbata in modo provocatorio, la loro identità il più delle volte non sopravvive che in maniera negativa (o reattiva) in ragione dell’ostilità dell’ambiente d’accoglienza, o addirittura del supersfruttamento capitalista che si esercita su lavoratori separati dalle loro naturali strutture di difesa e protezione.  Si è d’altra parte colpiti nel vedere come la problematica dell’identità sia posta, in certi ambienti, solo in correlazione con l’immigrazione. La principale, se non la sola, “minaccia” che peserebbe sull’identità nazionale francese sarebbe rappresentata dagli immigrati. Ciò vuol dire non tenere conto dei fattori che, ovunque nel mondo, nei paesi che contano una forte manodopera straniera come in quelli che non ne comportano alcuna, inducono una disgregazione delle identità collettive: primato del consumo, occidentalizzazione dei costumi, omogeneizzazione mediatica, generalizzazione dell’assiomatica dell’interesse ecc. È fin troppo facile, in questa percezione delle cose, ricadere nella logica del capro espiatorio. Tuttavia, non è certamente colpa degli immigrati se i francesi non sono apparentemente più capaci di produrre un proprio modo di vita, né di dare al mondo lo spettacolo di una maniera originale di pensare ed esistere. Nemmeno è colpa degli immigrati se il legame sociale si disfa ovunque si diffonde l’individualismo liberale, se la dittatura del privato fa svanire gli spazi pubblici che potrebbero costituire il crogiolo del rinnovamento di una cittadinanza attiva, né se gli individui, che ormai vivono nell’ideologia della merce, diventano sempre più estranei alla loro natura. Non è colpa degli immigrati se i francesi formano sempre meno un popolo, se la nazione diventa un fantasma, se l’economia si mondializza e se gli individui non vogliono più comportarsi come attori della propria esistenza, ma sempre più accettano che si decida al loro posto a partire da valori e norme che essi non contribuiscono più a formare. Non sono gli immigrati, infine, che colonizzano l’immaginario collettivo e impongono alla radio e alla televisione suoni, immagini, preoccupazioni e modelli “venuti da altrove”. Se c’è “mondialismo”, diciamo allora con onestà che, fino a prova contraria, è dall’altra parte dell’Atlantico che proviene, e non dall’altra parte del Mediterraneo. E aggiungiamo che il piccolo negoziante arabo di generi alimentari contribuisce a conservare, in modo conviviale, l’identità francese più del parco divertimenti americanomorfo o del “centro commerciale” con capitali francesi. Le vere cause della disgregazione dell’identità francese sono in effetti le stesse di quelle che spiegano l’erosione di tutte le altre identità: esaurimento del modello dello Stato-nazione, disagio di tutte le istituzioni tradizionali, rottura del contratto di cittadinanza, crisi della rappresentazione, adozione mimetica del modello americano ecc. L’ossessione del consumo, il culto del “successo” materiale e finanziario, la scomparsa delle idee di bene comune e di solidarietà, la dissociazione dell’avvenire individuale e del destino collettivo, lo sviluppo delle tecniche, il progresso delle esportazioni di capitali, l’alienazione dell’indipendenza economica, industriale e mediatica, hanno da soli distrutto maggiormente l’“omogeneità” della popolazione francese di quanto abbiano fatto finora degli immigrati che non sono altro che gli ultimi a subirne le conseguenze. […]

 

Insomma, se l’identità francese (ed europea) si disfa, è anzitutto a causa di un vasto movimento di omogeneizzazione tecnico-economica del mondo di cui l’imperialismo transnazionale o americanocentrico costituisce il vettore principale, e che generalizza ovunque il non senso, ossia un sentimento di assurdità della vita che distrugge i legami organici, dissolve la socialità naturale e rende ogni giorno gli uomini più estranei gli uni agli altri. L’immigrazione gioca piuttosto, da questo punto di vista, un ruolo di rivelatore. È lo specchio che dovrebbe permettere ai francesi di prendere pienamente coscienza dello stato di crisi larvata nel quale si trovano, stato di crisi di cui l’immigrazione, più che la causa, rappresenta una conseguenza tra le altre. Una identità si sente tanto più minacciata, in quanto si sa già vulnerabile, incerta, e, per farla breve, sconfitta. Per questa ragione non è più capace di fare affidamento su un apporto straniero per includerlo nel proprio.  In questo senso, non è tanto perché in Francia ci siano degli immigrati che l’identità francese è minacciata; piuttosto, è perché questa identità è già largamente demolita che la Francia non è più capace di fronteggiare il problema dell’immigrazione, se non dandosi all’angelismo o predicando l’esclusione. […] Non è l’affermazione dell’identità francese ad ostacolare l’integrazione degli immigrati, ma al contrario la sua cancellazione. L’immigrazione costituisce un problema perché l’identità francese è incerta. Ed è al contrario grazie a un’identità nazionale ritrovata che si risolveranno le difficoltà legate all’accoglienza e all’inserimento dei nuovi venuti. Si vede in tal modo quanto sia insensato credere che basterebbe invertire i flussi migratori per “uscire dalla decadenza”. La decadenza ha ben altre cause, e se in Francia non ci fosse un solo immigrato, i francesi si ritroverebbero comunque di fronte alle stesse difficoltà, ma stavolta senza capro espiatorio. Assillandosi sul problema dell’immigrazione, rendendo gli immigrati responsabili di tutto ciò che non va, si annullano nello stesso tempo una quantità di altre cause e di altre responsabilità. Si opera, in altri termini, un prodigioso dirottamento d’attenzione. Sarebbe interessante sapere a vantaggio di chi. […]

 

L’identitario è così invincibilmente ricondotto all’identico, alla semplice replica di un “eterno ieri”, di un passato glorificato dall’idealizzazione, entità preconcetta che bisognerebbe solo conservare e trasmettere come una sostanza sacra. Parallelamente, il sentimento nazionale è staccato dal contesto storico (l’emergere della modernità) che ha determinato la sua apparizione. La storia diventa dunque non-rottura, mentre non c’è storia possibile senza rottura. Essa diventa semplice durata che permette di esorcizzare la differenza, mentre la durata è per definizione dissomiglianza, differenza tra sé e se stesso, perpetua inclusione di nuove differenze. In breve, ci si serve della storia per proclamarne la chiusura, invece di trovarvi un incoraggiamento a lasciarla proseguire. L’identità non è tuttavia mai unidimensionale. Non soltanto associa cerchi di appartenenza multipli, ma combina fattori di permanenza e fattori di cambiamento, mutazioni endogene e rapporti esterni. L’identità di un popolo o di una nazione non è nemmeno soltanto la somma della sua storia, dei suoi costumi e dei suoi caratteri dominanti. […] Ciò che oggi minaccia di più l’identità nazionale possiede insomma una forte dimensione endogena, rappresentata dalla tendenza all’implosione del sociale, ossia alla destrutturazione interna di tutte le forme di socialità organica. Roland Castro ha potuto a giusto titolo parlare a questo proposito di società dove “nessuno sopporta più nessuno”, dove tutti escludono tutti, dove ogni individuo diventa potenzialmente estraneo a ogni altro. L’individualismo liberale ha a questo riguardo la responsabilità più grande. […] L’esclusione di cui sono vittime gli immigrati rischia di far dimenticare che viviamo sempre più in una società dove l’esclusione è la regola anche tra gli stessi “autoctoni”. Sopportandosi già sempre meno tra di loro, perché i francesi dovrebbero sopportare gli stranieri?  Alcuni rimproveri, d’altra parte, cadono da soli. Si dice spesso ai giovani immigrati che “nutrono odio” che dovrebbero avere rispetto del “Paese che li accoglie”. Ma perché i giovani beurs [i figli, nati in Francia, degli immigrati di origine nordafricana, ndr] dovrebbero essere più patrioti dei giovani di stirpe francese che non lo sono più?

 

Il rischio più grande, insomma, consisterebbe nel far credere che la critica dell’immigrazione, in sé legittima, sarà facilitata dalla crescita degli egoismi, mentre è questa crescita a disfare più profondamente il tessuto sociale. Del resto, qui è tutto il problema della xenofobia. Si crede di fortificare il sentimento nazionale fondandolo sul rifiuto dell’Altro. Dopodiché, una volta presa l’abitudine, si finisce con il trovare normale il rifiuto dei propri compatrioti. Una società cosciente della sua identità non può essere forte che quando fa passare il bene comune davanti all’interesse individuale, la solidarietà, la convivialità e la generosità verso l’altro davanti all’ossessione della concorrenza e al trionfo dell’io. Non può durare che quando si impone regole di disinteresse e gratuità, solo modo per sfuggire alla reificazione dei rapporti sociali, ossia all’avvento di un mondo in cui l’uomo si produce come oggetto dopo aver trasformato in artefatto tutto ciò che lo circonda. Ora, è ben evidente che non è predicando l’egoismo, fosse anche in nome della “lotta per la vita” (semplice ritrasposizione del principio individualista della “guerra di tutti contro tutti”), che si può ricreare la socialità conviviale e organica senza la quale non c’è popolo degno di questo nome. Non si ritroverà la “fraternità” in una società dove ciascuno ha il solo obiettivo di avere più “successo” dei suoi vicini. Non si restituirà il voler vivere insieme facendo appello alla xenofobia, ossia a un’avversione di principio dell’Altro che, a poco a poco, finisce con l’estendersi a tutti.

 

Alain de Benoist

 

 

Commenti
NuovoCerca
fosco2007@alice.it
lucianofuschini (Super Administrator) 24-06-2016 23:06

Il grande A.de Benoist parla della Francia ma quanto dice si applica a gran parte dell'Europa, Italia compresa. Le sue tesi esauriscono l'argomento, nel senso che non si può aggiungere altro a un ragionamento inappuntabile. Questo è un punto d'arrivo, una parola definitiva.
ottavino (Registered) 26-06-2016 11:19

È veramente grande questo Benoist...
Concordo appieno.
Concordo talmente tanto che proprio in questi giorni pensavo che dovremmo fare in modo che in ogni comune ci siano dei centri sociali, cioè dei luoghi dove si parla, si discute. Delle agorà dove non si vende nulla.
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