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Da movimento a partito PDF Stampa E-mail

14 Settembre 2016

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Da VVOX del 9-9-2016 (N.d.d.)

 

«È un asilo infantile». Non sapremmo dire se nella confusissima e autolesionistica crisi della giunta pentastellata di Virginia Raggi a Roma la diagnosi dell'”assessore per un giorno” Raffaele De Dominicis sia esatta. Ma avendo seguito l’evoluzione del Movimento 5 Stelle fin dagli esordi, e non soltanto nella realtà veneta, se volessimo cercare le cause di fondo dell’oggettiva anarchia improvvisatrice che, per stessa ammissione di molti suoi aderenti, ne caratterizza un po’ ovunque la vita interna, questo giudizio così sprezzante si basa su una verità che sarebbe ora che i grillini (o ex grillini, anche se Beppe Grillo nei frangenti difficili torna indispensabile) affrontassero e tentassero una buona volta di risolvere. Non per loro: per i Comuni da loro amministrati, e per l’Italia che potrebbe trovarsi da loro governata in caso di sfida finale col centrosinistra di Matteo Renzi. È un fatto che spesso, se non quasi sempre, le divisioni che lacerano i 5 Stelle non sono di natura politica in senso stretto, ma personali: il consigliere contro il consigliere, le incomprensioni e rivalità fra questo e quel militante, la malapianta di gruppi informali in faida permanente. Dice: e allora, che c’è di strano, non è così in tutte le forze politiche, anzi non è umanamente così in tutte le organizzazioni che superino il numero di due componenti (e basta vedere certe coppie per rendersi conto che soltanto da soli con se stessi non si finisce a litigare)? Certo, ma di solito, in politica, le antipatie e le differenze di sensibilità si sublimano in linee politiche diverse. In idee più o meno elaborate, e quando c’erano le correnti vere e proprie, saldate pure su interpretazioni ideologiche differenti. Fra i 5 Stelle, no. Ci sono sì idee anche molto distanti (c’è chi è per la decrescita felice e chi per una crescita alternativa, c’è chi dà più importanza al problema della finanza e chi alle questioni più “ordinarie” legate all’ambiente o alla corruzione, e via dicendo), ma vengono dopo, non prima. Perché ciascun pentastellato si considera, in totale buonafede, depositario unico degli ideali del movimento, e di conseguenza, consciamente o inconsciamente, in cuor suo non ammette che un altro, che magari considera valere meno di lui, abbia una responsabilità al posto suo.

 

Spiace doverlo dire visto che è morto (anche se, nel suo piccolo, chi scrive lo va scrivendo su varie testate da almeno sei anni, senza unirsi al coro che blatera di “antipolitica”), ma questa è l’eredità di quella sesquipedale fesseria di Casaleggio – e di Grillo – dell'”uno vale uno”. Tradotto in pratica, questo concetto astrattamente nobile si risolve e si è risolto nel credere che ognuno valesse un altro. Eh, no: uno non vale un altro. Un intelligente non vale un cretino, un capace non vale un incapace. Una persona preparata e di talento non può essere considerata come una che non sa dove sta il mondo, che, nello specifico, non sa nulla di politica, non sa cosa significa lavorare conciliando il bene pubblico con tempi e modi delle istituzioni, e con le fisiologiche dinamiche di un partito. Ecco, il Movimento 5 Stelle dovrebbe rassegnarsi all’idea di diventare un partito. Magari senza chiamarlo così, in ossequio alle esigenze della comunicazione e dell’immagine. E possibilmente evitando di replicare i frusti riti e liturgie dei partiti tradizionali. Ma la sostanza è che gli serve urgentemente dotarsi di una struttura che selezioni i candidati, che controlli seriamente ciò che avviene in basso, che permetta di scegliere secondo competenza (politica!) chi sta in alto. E che apra delle scuole di formazione (politica!), avvalendosi di esperti che insegnino che non bastano la buona volontà e l’onestà, per contrastare gli sciacalli di destra e la sinistra che, loro sì, sono gli ultimi che dovrebbero parlare, responsabili come sono dello sfacelo di Roma e dell’Italia.

 

Alessio Mannino

 

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