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La generazione Erasmus PDF Stampa E-mail

31 Ottobre 2016

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Da Rassegna di Arianna del 29-10-2016 (N.d.d.)

 

L’Ue dev’essere davvero arrivata al capolinea se intende risollevare le sue sorti, pesantemente compromesse da Brexit, dal referendum ungherese sulle politiche migratorie e dall’ascesa politica di movimenti e partiti “euroscettici” in vari Paesi della sedicente unione, attraverso il varo di una proposta di legge tesa a resuscitare l’Interrail come «antidoto all’antieuropeismo». Il Parlamento di Strasburgo, infatti, si è addirittura preso la briga di discutere la proposta di Manfred Weber, deputato tedesco del PPE, in base a cui, si legge sul sito di Repubblica, «per la prima volta sarà valutata la fattibilità di regalare un pass interrail gratuito a tutti i nuovi diciottenni dell’Ue». L’idea di Weber, guarda caso, «piace molto anche ai Socialisti & Democratici, che rivendicano anche la paternità dell’iniziativa, avanzata per la prima volta dall’ungherese Istvan Ujhelyi nell’agosto 2015». Si tratta, in effetti, dell’ennesima tirata propagandistica di un’Unione europea che, con le sue politiche improntate a una sorta di pseudo-melting pot, rimuove le culture tradizionali dei popoli (considerate un ostacolo alla costruzione del mercato unico delle identità mercificate) e promuove l’omogeneizzazione di moltitudini astratte, volutamente deterritorializzate (guai a parlare di patria originaria e di legami comunitari nell’Europa di banchieri e affaristi transnazionali), senza confini e standardizzate all’insegna di stili di vita, gusti musicali, abbigliamento e modi di comunicazione ormai identici a prescindere dalla nazionalità e dalla cultura di appartenenza dei singoli. Un esempio su tutti può essere utile per comprendere il perché del ricorso smodato, da parte di tecnocrati e opinion makers pro-Ue, alla retorica del giovanilismo e dell’Europa da intendersi come mercato unificato del divertimento senza frontiere. I giovani universitari ungheresi appartenenti alla Erasmus Generation, la generazione degli studenti che aveva fatto del “divertimento postmoderno” il proprio dio, affermavano infatti, come notava un articolo del quotidiano La Stampa del 2014, di sentirsi «più simili a un liberal spagnolo o americano che al compagno di banco ungherese e cattolico» e identificavano nello spazio unificato della Ue «la chance per fuggire» dall’Ungheria, dal “provincialismo conservatore magiaro”, per costituirsi parte integrante del mercato delle mode e dei desideri individuali sopra menzionato. Queste nuove generazioni di sradicati e di omologati sconcertano per la propria incapacità, nonché per la totale assenza di volontà, di assumere coscienza degli scenari in cui sono immerse. […]

 

Allorquando gli odierni maîtres à penser della sinistra contemporanea si prodigano nell’apologia diretta delle nuove tecnologie di comunicazione globale, dei voli low-cost (evoluzione dell’ormai obsoleto Interrail) e dell’Unione europea stessa, significa che è in corso un’offensiva politica volta a ridurre, ulteriormente, lo spazio di agibilità e di manovra politica per i fautori dell’Europa delle sovranità e delle patrie originarie. […] L’obiettivo delle caste culturali della sinistra postmoderna è infatti quello di creare un’intera generazione di giovani europei avulsi dalla realtà, sciaguratamente persuasi di vivere nel “meno peggiore dei mondi possibili”, turisti permanenti di Internet e della scappatella low-cost. Teenager globalizzati che travisano la suddetta scappatella low-cost con il partner di turno per effettiva possibilità individuale di godere e avvalersi delle opportunità di “libertà” loro “garantite” dal mercato mondiale del turismo e del nomadismo illimitati. La proposta di riesumazione dell’Interrail, con la sua esplicita funzione di degradazione al rango di turista di massa della nobile, antica e benemerita figura del viaggiatore, si situa esattamente in quest’ottica e persegue una direzione precisa: vincolare al consenso di Bruxelles le nuove generazioni europee in cambio di 6-12 mesi (nel corso di una vita intera) di “divertimento” e di “svago” a zonzo per un continente integralmente pervaso e conquistato da mode, stili di vita e abitudini individuali americane, veicolate e promosse apposta per occultare, negare e delegittimare la storia e le tradizioni, millenarie, dei popoli e delle nazioni d’Europa. L’ascesa elettorale del Front National in Francia, dell’AfD in Germania, la Brexit, la fine del TTIP e gli esiti, se non proprio scontati perlomeno prevedibili, del ballottaggio presidenziale austriaco, hanno infatti accelerato l’andamento di crisi sistemica in cui versano le impopolari e screditate classi dirigenti della Ue. In tale contesto, ciò che Bruxelles ritiene necessario per rivitalizzare il consenso attorno alle politiche di lacrime e sangue imposte a popoli e nazioni d’Europa da Commissione Juncker e sodali è la costruzione di una qualche forma di sostegno pubblico ai piani “mondialisti” di scioglimento delle identità tradizionali nella galassia virtuale della società nichilistica di mercato (priva di memoria storica, dedita all’idolatria del presente e incapace, o impossibilitata, di immaginare una qualsiasi prospettiva di futuro). La ricerca di questa base di consenso pubblico nei confronti dei progetti politici della Ue si può certamente ravvisare nel tentativo di esaltazione mediatica della cosiddetta “Generazione Erasmus”. Mai come in questo periodo storico infatti, spaesati e sradicati “studenti internazionali” dal tasso di ignoranza individuale spesso spaventoso sono incappati, più o meno loro malgrado, in una dinamica di santificazione giornalistica volta, in sostanza, a elevarli a strumentale “avanguardia” di un programma politico transnazionale fondato sul dominio della speculazione finanziaria senza frontiere e sulla filosofia del progresso capitalistico illimitato della Storia. In realtà, come scrive il politologo Marco Tarchi sull’ultimo numero della rivista Diorama Letterario, la Generazione Erasmus è soltanto «un’altra costruzione retorica che trasfigura – e sfigura – una realtà assai più prosaica delle sue rappresentazioni di comodo». A prescindere infatti dalla propria, in verità assai risicata, portata numerica e dall’effettiva autopercezione di appartenenza capace di connotarne i componenti come parte di un “gruppo sociale” realmente esistente, la Generazione Erasmus è un progetto di ingegneria sociale e l’oggetto della produzione sociale di massa del capitalismo contemporaneo (in altri termini, la Generazione Erasmus è il prodotto della società in cui viviamo). Quanto più sopra affermato trova conferma nelle parole pronunciate in merito da alcuni maître à penser del liberalismo odierno, quali Daniel Cohn-Bendit e Umberto Eco. Furono infatti costoro a teorizzare l’istituzione obbligatoria della “società dell’Erasmus” finalizzata allo scioglimento di ogni identità collettiva dei popoli europei (identità nazionale, religiosa, di classe, persino di genere) nel magma volutamente confusionario, postnazionale e postideologico di Cosmopolis, il mondo unificato all’insegna dello stile di vita “disinibito”, cinico, disincantato, apolide e oggettivamente stravagante degli strati superiori della classe media delle megalopoli globali. «Io», esternò in proposito Cohn-Bendit, «vorrei che la Commissione Europea finanziasse ogni anno lo studio all’estero di un milione di studenti europei che poi statisticamente si fidanzerebbero tra loro: che nazionalità avrebbe il figlio di un’olandese nata ad Amsterdam da genitori turchi e un francese nato a Parigi da genitori marocchini? Europea». In tal senso, l’idea di “identità europea” descritta da Cohn-Bendit non ha alcun punto di congiunzione con l’autentica, millenaria e pluralistica tradizione europea di popoli e nazioni ma ne invera, sull’altare del mercato globale delle mode contemporanee, la perfetta negazione. La tradizione europea potrebbe infatti trovare il proprio compimento in primo luogo in quello «Stato europeo identitario» di cui ha parlato Dominique Venner, un pensatore di inequivocabile attualità e innegabile profondità, la cui opera è meritevole di continua riscoperta e incessante divulgazione, nella prefazione al bel libro di Gérard Dussouy, Fondare lo Stato europeo contro l’Europa di Bruxelles (Controcorrente, 2016). Daniel Cohn-Bendit reinventa invece il nobile concetto di “identità europea” in chiave prettamente postidentitaria (ossia, in perfetta continuità con la vulgata sessantottesca riadattata in accezione postmoderna, negando e delegittimando le categorie di nazione, famiglia tradizionale e religione). In una società di mercato, giovanilistica e postidentitaria, la cultura del “divertimento” illimitato (Erasmus Culture) funge infatti da rampa di lancio per la costituzione delle apatiche e subalterne “moltitudini desideranti” invocate dall’intellighenzia liberale di sinistra come i “nuovi europei” del XXI secolo. Nell’Unione europea che hanno in mente le élite di Bruxelles, le identità tradizionali di popoli e nazioni, secondo quanto scrisse il filosofo Costanzo Preve nel libro La Quarta Guerra Mondiale (Edizioni all’Insegna del Veltro, 2008), dovevano essere ridotte alla stregua di «semplici risorse turistiche di mercato» finalizzate al soddisfacimento degli esotici svaghi e sfizi della “nuova classe media globale” in cerca di “avventure” e commistioni culinarie e sessuali con mondi del tutto semplicisticamente percepiti come “altri”. La liberalizzazione integrale dei costumi borghesi, facilitata dall’abbattimento dei costi dell’informazione e dall’irrompere della sottocultura della mobilità globale era, per definizione, l’obiettivo di riferimento degli ideologi della società dell’“Erasmus permanente” e “obbligatorio”, tant’è vero che, già nel gennaio 2012, Umberto Eco affermò che l’Unione europea sarebbe dovuta scaturire proprio da una «rivoluzione sessuale» propedeutica all’estinzione di ogni identità interpretabile come un potenziale ostacolo sulla via dell’estensione, senza limiti né confini, del mercato mondiale dei consumi e dei desideri “liberi”. Eco disse infatti che la «rivoluzione sessuale» generata dalla cosiddetta “Erasmus Experience” avrebbe cancellato ogni retaggio identitario e agevolato la formazione di una cittadinanza “europea” culturalmente compatibile con i principi politici della narrativa liberal-progressista: «Un giovane catalano incontra una ragazza fiamminga, si innamorano, si sposano, diventano europei come i loro figli. L’Erasmus dovrebbe essere obbligatorio […]. Passare un periodo nei paesi dell’Unione Europea, per integrarsi». Ai giorni nostri, “integrazione” è sinonimo di idolatria nei confronti degli stili di vita propri dei settori maggiormente benestanti e snob delle megalopoli globali (Parigi, Londra, New York, ecc.). Essere “integrati” significa infatti, soprattutto per le nuove generazioni, ciniche e totalmente conquistate alla religione postmoderna del denaro e della mobilità, “essere come gli altri”, ossia seguire le stesse mode (perlopiù americane) in fatto di abbigliamento e gusti musicali, nonché condividere gli stessi “divertimenti” e desiderare gli stessi beni di consumo, a prescindere dall’appartenenza nazionale d’origine. Assistiamo, attualmente, a una corsa frenetica, da parte delle nuove generazioni, verso l’adesione al conformismo più ostentato. “Essere come gli altri” è infatti la condicio sine qua non per sentirsi socialmente accettati, integrati e, pertanto, “parte di un tutto”. Generazione Erasmus è, soprattutto, sinonimo di una vera e propria controrivoluzione avente l’obiettivo di affossare qualsiasi ipotesi di antagonismo non soltanto di destra, ma anche di sinistra, rispetto allo stato di cose presenti, al mondo così com’è. La soppressione di ogni identità tradizionale rischia infatti di abolire irrimediabilmente non soltanto i tratti “conservatori” tipici delle moderne società borghesi ma anche quei valori cavallereschi (onore, fedeltà, solidarietà, autenticità ed eroismo) propri del socialismo delle origini. L’ascesa, anche politica, di coloro i quali percepiscono se stessi come interni alla sottocultura della Generazione Erasmus condurrà, inevitabilmente, in direzione di quella che il filosofo francese Olivier Reyha ha a buon diritto definito, nel libro La Dismisura (Controcorrente, 2016), «la marcia infernale del progresso» verso il baratro nichilistico della Storia.

 

Paolo Borgognone

 

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