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La governabilità non c'entra PDF Stampa E-mail

3 Dicembre 2016

 

Da Appelloalpopolo del 6-11-2016 (N.d.d.)

 

Nel secondo dopoguerra studiosi di varia ispirazione ideale e politica proposero interpretazioni del Risorgimento volte a rilevare le insufficienze della classe dirigente post-unitaria la quale, costituita da una ristretta élite liberale, è parsa insensibile verso i problemi sociali. Lo stato unitario sarebbe stato contraddistinto – sottolinearono i cattolici – da questa indifferenza sociale che derivava dall’individualismo economico e politico dei liberali, i quali d’altronde, avrebbero diffuso il culto esclusivo per la nazione e la dottrina dello stato etico. Ma già negli anni Venti anche il movimento nazionalista ravvisava nell’individualismo giusnaturalista il peggiore dei mali sociali, la matrice delle ideologie novecentesche come forze disgregatrici dello Stato. In campo marxista Gramsci sosteneva la tesi secondo la quale il limite fondamentale del processo unitario sarebbe stato la mancanza di una rivoluzione agraria. Infatti, né i moderati né i democratici sarebbero riusciti a rendere nazionale e popolare il Risorgimento, perché i primi erano contrari a coinvolgere nel moto unitario le classi rurali e i secondi ne erano politicamente incapaci per cui, non riuscendo a costituire una reale alternativa politica, lasciarono ai moderati la guida dell’unificazione. Il controllo esercitato dal ceto politico liberale e dalla monarchia sabauda non fu soltanto politico e militare ma anche sociale e non coinvolse il popolo nell’azione unitaria. Nel corso dei decenni successivi la pubblicistica politica non mancò di denunciare la scarsa rappresentatività dello Stato liberale e l’opposizione tra paese legale e paese reale. Rimasero deluse le speranze di Mazzini che inseguiva l’obiettivo di far partecipare i ceti operai e contadini al Risorgimento. Da questa rivoluzione meramente politica ma non sociale sarebbe nato uno stato il cui rapporto con la società civile rimase formale e giuridico senza mai diventare intrinseco e strutturale, in sostanza uno Stato costituzionalmente fragile perché democraticamente non rappresentativo nelle sue istituzioni, che nascevano distanti e rimanevano quasi estranee ai ceti popolari. Più che rafforzare lo Stato il liberale Giolitti si pose il problema di far durare i suoi governi, risolvendolo con il trasformismo elevato a sistema, con il patto Gentiloni e con l’allargamento del suffragio elettorale che fu definito universale anche se non esteso alle donne. I risultati non potevano essere risolutivi perché erano dovuti alle manovre discontinue di uno statista sia pur abile, ma non all’azione costante di organizzazioni politiche popolari che, storicamente mature, stavano per candidarsi a tutori dell’interesse nazionale e del progresso economico e sociale della Patria. Non poteva essere e non fu una soluzione la scelta autoritaria e antidemocratica di Mussolini perché, nel ventennio, più che il popolo, il consenso del quale era giocoforza conquistare con insistente propaganda, fu il regime e il partito a identificarsi con lo Stato.

 

Con la nascita della Repubblica i costituenti, reduci dal periodo di autoritarismo fascista, si posero il problema di come garantire un più sicuro funzionamento democratico dell’iter legislativo e adottarono il bicameralismo perfetto e il sistema elettorale proporzionale. In prima istanza i costituenti definirono le competenze del Parlamento e del Senato parificandole; con successivi provvedimenti il ceto politico del dopoguerra, sia pure per evitare o sciogliere i reciproci condizionamenti, rese le due assemblee ancora più simili per eleggibilità, sistema elettorale, durata e composizione. Forse che intendevano intralciare la produzione delle leggi e in tal modo indebolire il sistema democratico nella Repubblica che concorrevano a far nascere? In verità, questa scelta, suggerita dal timore di un ritorno a un regime autoritario, può bene essere definita mazziniana perché aprì finalmente il nuovo Stato ai ceti sociali di tutto un popolo; aumentava, con il “proporzionale”, il tasso di partecipazione popolare come mai prima di allora nelle sedi istituzionali di rappresentanza democratica e, con il bicameralismo perfetto, in pratica la duplicava. In particolare, il sistema proporzionale, che venne poi progressivamente abbandonato dopo la stagione di tangentopoli, garantiva un radicamento vicendevole: quello dei ceti dirigenti nel popolo e quello del popolo nelle istituzioni del nuovo Stato, che ne sortiva rafforzato. In definitiva, non fu ripetuto l’errore commesso – o la scelta voluta – dalla monarchia sabauda e dal ceto liberale ottocentesco di cercare nella dinastia e nel censo la forza dello Stato che invece risiedeva nel Popolo. La Prima Repubblica nasceva e progrediva con governi che duravano poco e mai per un’intera legislatura, arrivando a registrare perfino alcuni governi definiti ironicamente dalla stampa “balneari”, cioè formati per il periodo estivo, senza altro compito che quello di gestire gli affari correnti e approvare la legge di bilancio. Era prassi corrente e accettata il concepire governi temporanei e destinati a durare pochi mesi, che consentivano alle forze politiche di incontrarsi sistematicamente e di scontrarsi duramente per chiarire, precisare indirizzi politici e definire al meglio programmi di lavoro. Da queste due Camere gli eletti, dopo aver discusso alla luce dei principi ispiratori, emanavano le leggi ordinarie forse a rilento ma, per merito del bicameralismo perfetto, costituzionalmente conformi e meditate e, per via del “proporzionale” essendo tutti i ceti politicamente rappresentati, anche socialmente equilibrate. In definitiva, la forte rappresentatività del Senato e del Parlamento consentiva la tutela della quasi totalità degli interessi presenti nella società italiana.Se, a onta della lentezza legislativa e della scarsa durata dei governi, proprio nei decenni successivi al dopoguerra l’Italia della prima repubblica conosceva un grande e rapido sviluppo sociale e economico fino a diventare la quinta potenza industriale al mondo, è sensato chiedersi quale fosse la sua vera forza morale e politica. A dispetto di tutte le apparenze, di tutte le ironie giornalistiche e i commenti autolesionistici, la neonata Repubblica aveva costruito, tramite la fortissima rappresentatività delle due sedi legislative, una nuova unità e una nuova solidarietà nazionale, che consentiva di superare in breve tempo sfide che altri paesi più ricchi di essa non riuscivano a vincere. In questa Repubblica apparentemente debole e su un territorio militarmente occupato, un popolo sconfitto e devastato da una dittatura e da una guerra si riscattava esercitando la sua vera sovranità nelle due Camere. La sovranità e la forza nazionale non era dunque riposta negli esecutivi precari, nella governabilità, ma nella forte rappresentanza democratica garantita dal sistema elettorale e nella alta conformità costituzionale delle leggi ordinarie perseguita dal bicameralismo perfetto.

 

I potentati stranieri che si annidano nell’Unione europea, vogliono ora completare de iure l’espropriazione della sovranità popolare, che de facto è in corso da oltre venti anni, abolendo sostanzialmente le sedi istituzionali dove il popolo la esercita, o meglio la esercitava. La governabilità intesa dalla buro-tecnocrazia eurounionista non sembra la stabilità dei governi come gli apolidi nostrani si affannano a propagandare, ma una condizione di controllo e manovrabilità da imporre al popolo. Lasciarci docilmente pilotare da oligarchie straniere e rinunciare alla Costituzione accettando che in essa gli eurocollaborazionisti costituzionalizzino il vincolo esterno, farà certamente di noi un popolo “governabile”, ma non governante di se stesso cioè sovrano.

 

Luciano Del Vecchio

 

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