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Sindrome da attentati PDF Stampa E-mail

21 Agosto 2017

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Ci ritroviamo ancora a discutere e commentare attentati e stragi che stanno diventando una triste routine. A differenza di Parigi 2015, non ci sono state-per fortuna-quelle insopportabili condivisioni di massa coi tre colori della bandiera francese sulle immagini del profilo, oppure simboli di lutto o iniziative tanto inutili quanto demenziali come esporre candele ai balconi, eccetera; è vero che Colosseo e Torre Eiffel hanno spento le luci, ma ormai si tratta di un rituale logoro, vecchio, trito e ritrito tanto da essere passato in secondo piano. Se fossi un neuropsichiatra, conierei il termine di "sindrome ossessivo-compulsiva da attentati", perché ormai si tratta sempre del medesimo schema: si grida alla libertà della "democrazia", dei "diritti", del "nostro modo di vivere" e la continua contrapposizione tra noi belli, buoni, bravi, aperti, cosmopoliti e tolleranti e "loro" retrogradi, medievali,  brutti, sporchi, cattivi, ripetuto come un mantra (componente psichiatrica ossessiva che deve essere placato, ovviamente, con la ripetitività ritualizzata atta a sedare le ansie: fase compulsiva). La fase compulsiva prevede, per la nostra società, le veglie sui luoghi degli attentati, i fiori, i lumini, gli striscioni vicino alle foto delle vittime e la loro santificazione postuma (naturalmente tutti colti, aperti, intelligenti, speciali, sensibili, tendenti agli atti umanitari, addirittura grottescamente chiamati "martiri" da un quotidiano: così facendo si pongono al livello degli attentatori, anche essi "martiri" agli occhi dei fanatici sostenitori e, ciliegina sulla torta, gran finale, la parolina magica: continuità. Continuare dunque ad affollare la Rambla, nei bar, nei ristoranti, a bearsi di mischiarsi in una folla arcobaleno, multietnica, multiculturale, con coppie di ragazze a spasso mano nella mano e bambini americani con due papà provenienti da San Francisco, come ha fatto notare con aria di compiacimento oggi "La Repubblica", che ha speso fiumi di inchiostro per decantare l' apertura al mondo, il cosmopolitismo, l' eccezionalità, la "joie de vivre" libera, moderna, senza pregiudizi, le comitive allegre dei giovani "Erasmus", l' edonismo sfrenato di Barcellona,  "il mondo in una piazza", addirittura.

 

Forse le masse gaudenti, colorate, cosmopolite, Erasmus, discotecare, turistiche usa-e-getta che affollano Barcellona e quant'altre metropoli decantate dalla guida di "Repubblica" invece che invadere ancora festosamente la Rambla e far finta che nulla sia successo dovrebbero magari interrompere lo spettacolo, come si faceva una volta nei cinema tra primo e secondo tempo-abitudine che sta cadendo anch' essa in disuso-e prendersi una piccola pausa pe riflettere su come è cambiato il mondo negli ultimi cinque lustri e sulle politiche sciagurate adottate dai governi europei e americani in Nordafrica e Medioriente, che sono una delle cause principali-assieme alla globalizzazione, alle emigrazioni incontrollate indotte, al fallimento del multiculturalismo e all' incapacità di vedere l' altro da sé, tipico di una tendenza alla omologazione -dello scempio attuale. Si dice: loro ci odiano, ed è vero. Ma qualcuno si è mai preso la briga di farsi la domanda più facile e allo stesso tempo più difficile del mondo: perché? Purtroppo per tutti quanti noi, il terrorismo jihadista rischia di andare avanti a lungo e non sarà la fine imminente del "Califfato" come Stato fisico a bloccarlo. Perché ormai è una ideologia, è una franchigia del terrore, così come lo fu Al Qaeda di Bin Laden. Le folle in piazza continuano a dire "io non ho paura", come i governi e ostentano appunto normalità e "continuazione"; a me pare invece che se la facciano sotto dalla fifa blu e che sia una mera esibizione di finta spavalderia. Questo terrorismo, ormai incontrollabile e che può colpirti dovunque, va combattuto non solo con la prevenzione quando possibile e con le forze di polizia e magistratura e scambi di dati tra Stati europei, ma anche provando a capire, appunto, "perché" ci odiano. E studiare quindi parecchio degli ultimi lustri. Discorso lungo, che occuperebbe molto spazio e pagine, ma temo che poco interessi al popolo della Rambla; avanti col prossimo drink, sino al prossimo Moussa  Oubakir di turno...

 

Simone Torresani

 

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