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Di Stefano, Heidegger e il tigrotto PDF Stampa E-mail

8 Marzo 2018

 

Una delle sorprese più grandi di questa tornata elettorale è stata sicuramente lo scarso consenso, da zero virgola, per intendersi, riscosso da Casapound.  Oltre alla percezione avvertita dell’entità numerica del partito guidato da Di Stefano, senza dubbio molto diversa dalla realtà che poi si è palesata, anche gli stessi sondaggi davano Cpi vicina alla soglia di sbarramento, se non al di là della stessa. Le dichiarazioni del capo, gli inviti a “votare forte”, come se un singolo voto potesse determinare l’impresa – poi non si sa che impresa sarebbe stata - erano conferma di questa percezione. Invece è avvenuto il crollo, al di là dell’aumento importante dei consensi rispetto all’ultima consultazione, un crollo evidenziato, più che dai numeri, dalle aspettative e dai risultati sensibilmente superiori dei dirimpettai di Potere al Popolo. Cerchiamo di capire i perché di questa vicenda. Partiamo da una precisazione preliminare: Casapound è tra le tre o quattro formazioni che ritengo se non vicine, almeno fortemente compatibili con la mia visione della politica. Non si tratta quindi di una critica irridente e non costruttiva, ma semplicemente della sommatoria di alcune osservazioni che venivo facendo anche in rete, e anche direttamente ad esponenti dello stesso partito, già mesi fa.

 

La strategia di Cpi per questa campagna elettorale si è basata su tre punti, tutti pragmatici: da un lato il tentativo di mantenere agganciata a sé la base nostalgica di matrice fascista, sia attraverso il perpetuarsi dei riti d’ordinanza, sia attraverso una palese rivendicazione di alcuni aspetti dell’esperienza del regime; dall’altro una sorta di modernismo attualizzante, che si è mostrato ad esempio nel coinvolgimento di personaggi noti, alla Nina Moric per intendersi, nella ricerca di un vippismo improbabile e nell’accettazione delle dinamiche liberaldemocratiche della comunicazione; infine nella ricerca di uno sdoganamento, di stampo finiano, simboleggiato dal Mentana che imperversa nella sede di Di Stefano maledicendo le leggi razziali e altri aspetti del fascismo nel silenzio attonito e remissivo della sala, in una asimmetria mediatica e carismatica percepibile anche dal profano della comunicazione. Ma non solo Mentana! Lo sdoganamento doveva passare per il silenzio, o anche la stessa negazione, fino all’assunzione del ruolo di debunker, su alcuni temi sensibili quali l’obbligo vaccinale glaxoburionico, il Piano Kalergi, le scie chimiche, fino all’accettazione velata di alcuni tratti del multiculturalismo. Ora, se sul discorso Kalergi si sa come la penso, per quanto riguarda le cosiddette scie chimiche non credo minimamente all’avvelenamento di massa, perché il credervi esporrebbe ad aporie insormontabili, ma da qui a dire che, in un mondo in cui per verniciare una persiana di un colore piuttosto che di un altro bisogna raccomandarsi ai santi, sia normale e consentito offuscare il sole e impedire agli umani la visione dell’azzurro del cielo, ce ne passa eccome.  Insomma, una strategia schizofrenica e pavida che non lasciava presagire nulla di buono, senza che si avvertisse il bisogno di andare a definire, esagerando, Casapound come la realtà dei rassicuranti fascisti da salotto. Il prevedibile finale di questa vicenda è stato il piagnisteo di Di Stefano, lungo, insistente, risentito, con cui la notte dello spoglio si è presentato proprio dinanzi a Mentana, su La7. Un piagnisteo errato dal punto di vista della strategia comunicativa ma anche fastidioso dal punto di vista estetico, mancante in una autocritica che sembrava doverosa, ma soprattutto per niente in linea con il patrimonio culturale di certa “destra” accettante, quale emerge ad esempio dalle posizioni di Nietzsche, Jaspers, De Unamuno, nelle loro riflessioni sulla superiorità della sconfitta in senso tragico. Il punto è questo in sostanza: il rapporto tra Di Stefano e questi contenuti culturali esiste? È avvertibile? Esso sarebbe potuto emergere, se non nuotava neanche nell’oscurità del fondale? Ma quale è la radice di queste scelte, rivelatesi fallimentari? Cpi ha creduto di poter cavalcare il tigrotto del postmodernismo comunicativo, delle logiche massmediali, per poi magari scendere dal cucciolo trionfalmente, una volta sbarcati in parlamento. Ha creduto di poter maneggiare le armi di lorsignori ed uscirne indenne e la punizione è puntualmente arrivata con le parole di scherno dello stesso Mentana: “Cosa volevate, Fantastico?”. Lorsignori hanno creato quelle forme e quelle armi ed esse hanno una vita propria, contaminante. Se il tigrotto si è lasciato cavalcare di pomeriggio, sotto lo sguardo sornione della mamma, all’imbrunire essa ha chiamato a sé, inesorabilmente, e la natura ha fatto il suo corso. Se gli ideologi di Casapound avessero avuto in mente le critiche di Martin Heidegger al nazionalsocialismo, ovvero quelle di voler costruire, subito e per scorciatoie, su basi poco solide e per nulla alternative al pensiero tecnico-strumentale, una nuova realtà ideale, forse non avrebbero commesso questo errore. Heidegger, sia in Essere e Tempo che nei Quaderni Neri mette in guardia da tale pericolo ed invita a non cavalcare tigrotti finché non giunge il momento di uscire dal bosco o dalla Foresta Nera. E l’uscita è un fatto culturale, non mediatico, non storico, ma metastorico. La tigre Mentana ha sbranato ridendo Di Stefano, assaporando quel rovesciamento messianico di posizioni che contraddistingue le vicende mondiali degli ultimi cento anni, mentre Heidegger faceva di no con la testa, da dietro un abete, proprio accanto alla sua baita, prima di riaprire l’uscio e rientrarvi lentamente. Quale lascito positivo da questa vicenda? Forse, ed era ora, la fine del fascismo, e conseguentemente dell’antifascismo in assenza di fascismo.

 

Matteo Simonetti

 

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