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Platone comunitarista PDF Stampa E-mail

15 Maggio 2018

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Da Rassegna di Arianna dell’11-5-2018 (N.d.d.) 

 

Utopia letteraria, oppure vero manuale di costruzione del politico? Tra questi due poli si è spesso mossa la critica all’opera più graffiante e incisiva di Platone, considerando volta a volta questo testo capitale come un’esercitazione retorica, oppure una prova ontologica, o invece, cosa che è da condividere, un vero manifesto di politica universale, capace di costituire in ogni tempo un codice di esemplare tenuta sociale. Altre volte invece, come nel caso del liberale Popper, Platone e la sua “Repubblica” hanno recitato la parte del nemico pubblico numero uno, l’ideologia che, proponendo una società ben organizzata in sé, salda e solida e quindi chiusa ai pericoli e ai mali esterni, più di altre mette in pericolo le beatitudini della “società aperta”.

 

Il catalogo delle posizioni che la “Repubblica” platonica sciorina è di quelli difficili da digerire per chi abbia lo stomaco egualitario, pacifista e progressista. Impossibile non vedere che il classicismo antico e la degenerazione postmoderna sono su posizioni antitetiche. Per occhi borghesi e moderati, cosmopoliti e “buonisti”, il pensiero di Platone rappresenta lo scandalo massimo: esso tratteggia al sommo grado la comunità, e quindi liquida a priori l’individualismo, che invece è il grande rifugio delle impotenze liberali. Questi sono alcuni dei punti più qualificanti del politico platonico, che costituiscono – come giustamente, dal suo punto di vista, rilevava Popper - quanto di più inassimilabile alla mentalità dei “democratici” post-moderni: la rigida e severa paideia, l’educazione e la selezione cui Platone affidava nella “Repubblica” la crescita delle classi dirigenti della città ideale; la soppressione dell’individualismo dinanzi al prevalere degli interessi di comunità; la comunanza, addirittura, delle donne e dei beni; l’abolizione della proprietà privata; il predominio dello Stato “organico” sul singolo individuo, di cui non si conoscono diritti, ma unicamente doveri; il tipo di governo, gerarchico, aristocratico ed elitario, al quale partecipano i filosofi e niente affatto la massa del popolo. Tutto questo scandalizza la tempra ipocrita e fraudolenta dei “democratici” moderni, che spacciano le loro oligarchie alto-borghesi per governi “del popolo” e barattano le loro dittature finanziarie per servizi resi alla maggioranza.  Quello platonico è il grande affresco sul risanamento dell’uomo. L’analisi del filosofo attiene ad un vero e proprio storicismo, ponendosi al culmine delle epoche col taglio di colui che giudica: e ciò che la storia dispiega è la degenerazione, antropologica, psicofisica, proprio anche biologica in cui incorre l’umanità che si lasci liquefare nel rimescolamento e nella perdita dei propri caratteri originari. La classe dei custodi, a cui Platone affida il comando della società perfetta, rappresenta la consapevolezza di questa via di degrado, cui solo una ferrea volontà di contrapposizione può recare il rimedio, che consiste nell’allevamento – autentica Züchtung, come la chiamava il platonico Nietzsche – della migliore possibile razza d’uomo. […] Questa tecnoscienza selettiva e filosofica, di preparazione bio-psichica di un ordine di uomini superiori, selezionati per servire alla bisogna di un retto convivere e di un superiore agire, costituisce il quadro naturalistico e biologistico dello storicismo platonico.  […] Quella di Platone, pertanto, è una lezione di educazione, ma anche di ri-educazione, squadernando la più alta e conclusiva confutazione di Socrate. L’uditore del dialogo platonico ascolta dunque la comprovata inutilità del metodo individuale di insegnamento praticato da Socrate. Non sarà il dialogo logico-razionale a risvegliare nel giovane uomo le sopite virtù di saggezza e di armonia. Sarà invece la ferma educazione castrense alla sobria forza, nella volontà di costruire un rango che difenda la città e ne rinnovi la robustezza morale, a liquidare le chiacchiere e a volgersi ai fatti costruttivi. Platone propone l’abolizione della poesia tradizionale, nella quale si mostravano uomini – e persino dèi – travagliati dalle peggiori passioni, l’avidità, la viltà, la gelosia. L’elevazione degli animi dovrà essere ottenuta attraverso una nuova forma poetica, e un’arte figurativa, che sappiano rappresentare il bello, l’armonioso, il buono, il nobile. Una bonifica della cultura, insomma. Il rango guerriero che Platone, nei libri iniziali della Repubblica, indica come destinatario della difesa fisica e morale della comunità ideale, e al quale devono andare tutte queste attenzioni, è l’elemento più prezioso per ordire un disegno di contro-potere in grado di annientare gli antichi vizi. Il sistema gerarchico pensato da Platone prevede che dalle classi che ricoprono le funzioni principali – il governo e l’esercito – venga estratto il ristretto e sceltissimo ceto degli Arconti, i migliori, i destinati alle cure della guida politica, che verranno affiancati dagli Epicuroi, i difensori dell’ordine sociale. Ad essi, nessuna proprietà è permessa. Loro compito sarà esclusivamente quello di pensare al bene comune, dimenticando l’utile individuale. In questo voler organizzare, assegnare ruoli, disporre meriti e poteri noi vediamo l’intenzione platonica di rispettare la realtà di natura. La giustizia di Platone è la giustizia di natura. E la Repubblica basata su giustizia è quella che rispetta i caratteri, le virtù, le differenze di tutti e di ognuno. Una giustizia differenzialista e distributiva. Fedeltà a natura: il riconoscimento del proprio essere, diverso ogni volta e ogni volta degno, qualunque esso sia, porta all’assegnazione naturale, spontanea, della propria funzione nella società giusta. Nella quale il comando e l’obbedienza sono ugualmente essenziali, ugualmente portati a sospingere il carattere e la forma interiore dell’uomo, di ogni singolo uomo, verso l’alto. La giustizia platonica, difatti, innalza, e il principio che regge lo Stato giusto è quello che vede ciò che è superiore – lo spirito eroico, l’eccellenza intelligente – guidare ciò che, afflitto da bisogni e bramosie d’ordine più basso, ed essi ugualmente sono bisognosi di un comando illuminato. Ma certo l’ordine intellettivo di Platone non è ragione rozza e impartecipe: qui non si hanno i contorni delle varie “Utopie” sociali preconfezionate dalla ragione cartesiana. Ricordiamo infatti che l’intelletto, il Nous platonico, è in realtà “ragione intuitiva”, così che la Repubblica di Platone, fondata sulla differenza di natura, non avrà nulla del “mostro freddo”, lo Stato borghese, muto ed estraneo, condannato da Nietzsche come nemico dell’uomo. L’intelletto, come precisa Platone nella “Repubblica”, è la “contemplazione dell’ottimo nel campo dell’essere”. Questa affermazione ci rimanda al disegno, che è stato anche di Heidegger nel Novecento, di correggere il politico con il ritorno all’essere primigenio. Il pensatore tedesco, infatti, fece filosofia proprio ripercorrendo la via che Platone intraprese andando a Siracusa, nel sogno di rendere il filosofo allo stesso tempo un capo politico. 

 

Il divino ordinamento cui pensa Platone nella “Repubblica” è l’ordine tradizionale delle cose, in cui sovrana disposizione hanno la buona nascita e il legame col suolo della patria e massima attribuzione del rango è il combaciare della propria natura con la propria funzione. Questa concezione dipese dall’avere Platone un’idea organicistica della società, secondo la nota tripartizione dei poteri, di ascendenza indoeuropea, fra governanti, difensori e lavoratori-commercianti: essa non è una costruzione umana, è un organismo vivente, al cui benessere contribuiscono tutti gli organi vitali che lo compongono, dal più alto ed essenziale al più umile e secondario. Le implicazioni che la Repubblica di Platone comporta – nel suo essere l’esatto speculare della società moderna: gerarchica, anti-egualitaria, etnocentrica, sacrale, etc. – valgono l’osservazione che, in questo testo, il discorso sul potere e sulla giustizia, sul superamento della conflittualità tra ricchi e poveri, sulla fedeltà al proprio ruolo sociale sono considerati essenzialmente come portatori di salute, il che vuole altrimenti dire salvezza. La salute – psichica e fisica - è per Platone il canone primo della migliore convivenza, coincidente col più alto merito: “E allora la virtù sarà una specie di salute, bellezza e felice condizione dell’anima; il vizio malattia, bruttezza e debolezza”. La salute mentale e quella fisica dell’uomo dipendono dal suo porsi correttamente nella società. Da qui proviene, secondo Platone, la salvezza dalla massima fra le sciagure: il disordine, il caos, la degenerazione.

 

Luca Leonello Rimbotti

 

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