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Inefficienza del privato PDF Stampa E-mail

19 Giugno 2018

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Da Comedonchisciotte del 17-6-2018 (N.d.d.)

 

Linea ferroviaria Edimburgo-Londra.  Gestita da privati, è fallita.  Per la terza volta in dieci anni, è lo Stato che deve rimettere soldi nelle casse vuote dell’operatore privato: l’equivalente di due miliardi di euro. Quando la linea era pubblica, la linea “rendeva” l’equivalente di un miliardo annuo. Ma  fatti simili non fanno nemmeno più notizia, in  confronto alla galleria degli orrori che ha prodotto la storica privatizzazione delle ferrovie, britanniche, promossa dalla Thatcher e  continuata da Tony Blair –  con evidente ostinazione ideologica  di consegnare al “mercato”  tutto ciò che era “dello Stato”: dal 1999  al  2000,   si sono prodotti 90 deragliamenti, collisioni con gran numero di  vittime (40 morti e 160 feriti nell’ottobre ’99,  a Paddington, nello scontro frontale fra due treni passeggeri).  Incidenti spesso dovuti ai risparmi fatti dai privati nella manutenzione, persino nel mancato sfoltimento delle chiome alberate che nascondono i semafori, nella ostinazione a non fornire le line del sistema in uso nel resto d’Europa, ATP (Automatic Train Protectin), che ferma un convoglio se il macchinista non “vede” il rosso. Ciò, a proposito della leggenda sulla maggiore efficienza del privato rispetto allo Stato nella gestione di pubblici servizi.   I prezzi sono forse più convenienti?  L’utente britannico paga 6 più del francese (dove la privatizzazione non è ancora avvenuta: da qui il braccio di ferro che Macron ha ingaggiato coi sindacati ferrovieri) per andare al luogo di lavoro, spendendo il 14% del suo reddito mensile, contro il 2% del francese.  Il prezzo dei biglietti, già carissimi, è ulteriormente aumentato dal 2010: del 27 per cento. Efficienza? Anche a mettere tra parentesi deragliamenti e collisioni – i ritardi sono enormi e all’ordine del giorno. Siccome a gestire le linee sono dozzine di società private, che non riconoscono i titoli di viaggio l’una dell’altra, il viaggiatore deve fornirsi di 5 o 6 biglietti, deve fare conti complicato per comparare i prezzi perché il tragitto costi il meno possibile, e in molte stazioni non sono disponibili tabelle complete degli orari e delle partenze. Una caratteristica che la unisce alla Finlandia, ultima arrivata nella privatizzazione: oggi non è più possibile ottenere informazioni nelle stazioni, o anche sui treni, perché l’operatore statale nel 2015 è stato suddiviso in 21 ditte private.  Le quali hanno immediatamente chiuso 28 stazioni su 200 (il 14%) perché non rendevano. Anche le condizioni dei lavoratori  inglesi  sono peggiorate:  lo status di ferroviere con contratto fisso è diventato una rarità, sostituito da interinali e precari assunti da ditte subappaltanti, contratti a zero ore[…] La Germania, indicata come modello di privatizzazione delle ferrovie, ha visto contrarre la rete da 415 mila a 330 mila chilometri, la  chiusura di 700 stazioni (ecco il punto: piccole stazioni sono “poco convenienti”,  dal punto di vista del profitto “rami secchi”), medie stazioni come quella di Magonza (200 mila abitanti) che chiude appena  fa  sera perché manca il personale; il personale è  stato tagliato, da 350 mila a 220 mila, e solo il 16% ha lo status di ferroviere, il resto sono i soliti interinali, precari, sub-appaltati. Le tariffe sono rincarate dal 30 al 50% un treno su 5 è in ritardo, e le compagnie hanno accumulato un debito di 20 miliardi di euro. In realtà, sono i contribuenti tedeschi a sovvenzionare questi privati: al ritmo di 8 miliardi l’anno per sovvenzionare gli azionisti delle linee regionali, organizzate in monopoli privati; la gestione della rete privatizzata viene sovvenzionata dallo Stato al ritmo di 19 miliardi di euro l’anno: tra il 1995 e il 2005, lo stato germanico ha sborsato 232 miliardi di euro. […] nel sistema di credenze detto “liberismo di mercato” c’è qualcosa di radicalmente sbagliato.  Non stupirà sapere che questo “sbaglio radicale” è stato adottato dalla Commissione Europea, che lo impone agli stati membri nella versione più estremista: separazione degli impianti fissi e del materiale rotabile, con l’assegnazione a ditte private della proprietà dei binari, che “affittano” all’azienda padrona dei treni dietro pagamento.  Abbiamo qui l’assurdo al quadrato, che “Il mercato” (o quel che la Commissione crede tale) è preteso in modo autoritario da un ente, come la Commissione, che si sottrae al “mercato” (se così vogliamo chiamarlo) del voto dei cittadini.

 

Bisogna risvegliarsi da questo incubo, dall’estremismo ideologico che considera la sete privata di profitto una garanzia di “efficienza” e “perfetta allocazione delle risorse”. Da troppo tempo prigionieri del pensiero unico liberista, non riusciamo a vedere che le ferrovie sono il tipico settore (altri ce ne sono) dove il privato non può (e per chi scrive, non deve) sostituire lo Stato. Non solo perché il servizio ferroviario nazionale è ciò che si chiama “un monopolio naturale”. Né solo perché comporta una tale mole di  investimenti in  grandi impianti fissi ed enormi infrastrutture  (gallerie, ponti, viadotti, distribuzione energetica)  addirittura secolari  “del tutto fuori dalle possibilità e soprattutto dagli interessi di qualsiasi privato, perché spese non recuperabili secondo una logica di impresa” o ammortizzabili in tempo perché un imprenditore umano possa cominciare a sperare di cogliere “i profitti”; ma c’è un motivo più fondamentale, così  evidente che si ha vergogna a ricordarlo: “l’obbligo  istituzionale,  per lo Stato,  di fornire il servizio  alla intera comunità nazionale alle medesime condizioni”. Ciò implica una mentalità gestionale del tutto diversa da quella che alimenta i “mercati”.   […] Trenitalia vanta enormi profitti, tanto da lanciarsi in investimenti all’estero: è una SpA, una “società per azioni” ma posseduta al 100% dallo Stato, che applica le regole del “privato”: fra cui l’espulsione del 43% della manodopera ereditata dalle FFSS.  Un “risparmio” che ha accollato come “spesa” allo Stato, al quale i 93 mila espulsi sono rimasti a carico, in qualità di pensionati. L’idea liberista assume che lo Stato “efficiente” deve essere gestito come un’azienda, precisamente un’azienda esportatrice.  Ma un’azienda non ha bambini da istruire, malati da curare, vecchi “improduttivi” da mantenere, non può “esternalizzare” questi che (per l’aziendalismo bocconiano) sono “costi”. Anche se nella sua nuova versione imposta dall’ideologia corrente, ci prova seriamente –  minando le basi stesse della sua continuità storica. La mentalità privatista, ossia egoista e a breve termine, non è quella che deve animare i responsabili dei servizi pubblici –   in cambio del loro stipendio sicuro, essi devono essere addestrati in modo da esserne pervasi da una visione severa ed alta, impersonale, del loro compito. Come grandi private esprimono una “cultura aziendale”, esiste una cultura statuale, che implica un senso della dignità propria e del compito, qualcosa che per forza bisogna chiamare senso della patria e responsabilità verso i concittadini.  Oggi questa cultura è stata irrisa, e anzi distrutta da cose come il diritto di sciopero e di associazione sindacale nel pubblico impiego, una aberrazione che ha riflessi psichici e nello scadimento morale dei dipendenti.  Ancor ieri, non era così. La divisa dei ferrovieri, come dei militari (ma anche degli scolari come la toga dei giudici, e in certi Stati l’uniforme anche degli alti funzionari) esprimeva appunto questa etica, il rivestire la persona privata della sua funzione pubblica, e cancellarvela. La funzione consiste(va) nel proteggere il cittadino – il povero e l’indifeso – precisamente dal “mercato”, e dalla diseguaglianza che produce.

 

Nelle situazioni belliche, la cosa è evidente, quando la mentalità “privata” e di mercato è solo di disturbo, eversiva e immorale – e bisogna far funzionare i treni sotto le bombe, la logistica, la distribuzione di energia, la riparazione delle infrastrutture danneggiate, e     persino la distribuzione della posta, costi quel che costi.  Il caso estremo è il tesseramento alimentare, il razionamento statale del cibo scarso: tipicamente, il “mercato libero” viene abolito d’imperio; diventa” mercato nero” ed un delitto passibile di fucilazione.  Non si considerano le eventuali inefficienze delle tessere annonarie, il “costo” del prezzo calmierato; tutto vale purché si impedisca ai pochi di spanciarsi mentre il resto del popolo muore di fame. Evidentemente qui è in gioco qualcosa di più morale e fondamentale della ”libertà” privata. Ma anche in situazioni più normali, è interessante constatare come l’opera dell’uomo di Stato consista nel sopprimere il mercato, o nel ridurne l’impatto. Enrico Mattei, quando stringeva accordi decennali con l’Iran o l’Algeria, sottraeva l’Italia, ma anche il paese produttore, alle variazioni imprevedibili e nevrotiche del mercato “spot” del petrolio: le due parti stabilivano un prezzo medio ed equo, conveniente all’Italia  ma anche (soprattutto) al paese produttore, che poteva contare così su introiti certi e prevedibili  per i suoi piani di sviluppo, e sottratti alla speculazione e ai ricatti  delle Sorelle – e del potere finanziario che sempre le accompagna, quando i “mercati”  offrono al paese in difficoltà per mancanza di fondi, perché il petrolio è crollato, di indebitarsi…ciò che finisce regolarmente con l’esproprio, da parte del capitale, delle ricchezze del paese indebitato, che si ha cura di rendere insolvente. I generi essenziali di prima necessità vengono, quando occorre, sottratti al mercato. Fra questi, l’emissione monetaria: tale era il “matrimonio” fra Tesoro e Banca d’Italia di prima del 1981 (o di qualunque altra banca centrale nelle altre nazioni), per cui questa era obbligata a comprare i Buoni del Tesoro eventualmente invenduti sui “mercati”. Ciò calmierava gli interessi richiesti dall’usura internazionale, salvò dall’aumento del debito pubblico e salvaguardava l’autonomia politica nazionale, consentiva di fare politiche di pieno impiego (a prezzo di un po’ d’inflazione) e non mancare dei fondi per programmi infrastrutturali – che mai il “mercato” farebbe, richiedendo investimenti grandi e di lunga durata. La ratio etica, se volete, era che il lavoro del popolo (perché “il denaro comanda lavoro”) non poteva essere abbandonato alle mani della speculazione straniera assetata di rendimenti immediati, e non all’interesse generale di quel popolo che indebita.  Sfido chiunque a sostenere che il sistema attuale di dipendenza dai “mercati internazionali” che giudicano il nostro debito pubblico, e del denaro creato al 98% dalle banche indebitando, sia meglio. O come amano dire i teologi del capitalismo finanziario, più efficiente. Un trentennio di privatizzazioni dovrebbe averci finalmente fatto capire che “lo scopo della privatizzazione dei servizi pubblici non è mai stato (neppure quello dei suoi più accesi zelatori) di migliorare il funzionamento dei servizi stessi, bensì di sostituirli con imprese aventi lo scopo di ricavarne profitto”.

 

Perdura invece il mito che lo Stato gestore sia burocrazia e spreco, mentre il capitale privato sarebbe il solo “creativo” e promotore di innovazione. È vero l’esatto contrario.   Guardate il vostro smartphone, che vi fa così felici. L’app che vi consente di trovare una strada in una città sconosciuta grazie a una mappa virtuale, nasce come apparato di guida dei missili da crociera.  Esso funziona solo grazie a certi satelliti artificiali geostazionari su orbite specifiche, che nessun privato si è mai occupato di mettere in orbita, né di mantenerceli. La fotocamera digitale con cui vi fate i selfie da mettere su Facebook, è stata concepita per i satelliti-spia: mica era possibile che lanciassero i rullini fotografici con il paracadute.  La miniaturizzazione che rende il vostro telefonino tascabile, è il risultato di ricerche per ridurre i volumi nei satelliti artificiali e nelle testate missilistiche. Tutto ciò – come la stessa internet a cui lo smart è collegato –  è stato inventato e concepito non da privati, ma nei laboratori del DARPA (Defense Advanced Research Projects Agency) ente di Stato americano, del Ministero Difesa. Nessun privato avrebbe mai investito e rischiato i suoi amati capitali nello sviluppo di simili invenzioni, delle quali, prima, non c’era “mercato”.  Poi i tipi alla Steve Jobs sono diventati miliardari, mettendo insieme i risultati delle ricerche militari in un oggetto commerciabile di successo; ma i veri geni che l’hanno inventato, sono degli sconosciuti signori americani di una certa età, che godono di una pensione di stato appena dignitosa. Hanno lavorato alle dipendenze dello Stato, lo stato ha dato loro le istruzioni su quel che voleva, lo stato ha finanziato le loro ricerche, quelle riuscite e le molte fallite, a fondo perduto e senza la preoccupazione di ricavare un profitto. Già: ecco perché la Thatcher s’è ben guardata dal privatizzare le industrie ad alta tecnologia, elettronica, aeronautica, difesa, e di quotarle in Borsa per farle acquistare da stranieri. “La caratteristica di queste industrie di alta tecnologia è di essere SEMPRE industrie di Stato, anche nei casi di apparente proprietà privata, come in USA” (si provi un capitalista cinese a scalare la Lockheed). “Perché queste industrie – tutte collegate con la difesa – sono d’importanza fondamentale? Prima di tutto, per la loro funzione di progresso tecnico, cioè di investimento del patrimonio tecnologico nazionale, e di garanzia di indipendenza dall’estero in alcuni settori vitali, anzitutto la difesa – ma anche per il loro contributo alla bilancia commerciale: infatti la prima voce di esportazione industriale di Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e Russia è l’aeronautica, cosa ben poco nota”. Così Antonio Venier, in Il disastro di una nazione- Saccheggio dell’Italia e globalizzazione, Padova, 2000, con prefazione di Bettino Craxi). Piaccia o no ai pacifisti, un paese che si priva delle industrie di alta tecnologia essenzialmente legate alla difesa, esce dal primo mondo. Diventa un paese come il Venezuela e l’Argentina, con la loro “borghesia compradora” irresponsabile, le università scadute, la cultura generale scadente, le intelligenze non richieste obbligate ad emigrare. Non so se vi ricorda qualcosa. Per contro la Russia, con un prodotto interno lordo minore del nostro, non è un Venezuela petrolifero grazie alle sue industrie militari avanzate e ai suoi scienziati integrati in queste industrie. Anzi è un protagonista geopolitico globale.

 

Maurizio Blondet

 

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