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16 Luglio 2018

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Da Appelloalpopolo del 14-7-2018 (N.d.d.)

 

Interpretare gli avvenimenti in corso come l’espressione dello scontro fra globalisti e sovranisti, pro o contro l’Unione Europea, o come un problema umanitario di atteggiamento del governo italiano verso i migranti, non deve impedirci di cogliere la questione, non meno importante e vitale, del ruolo che l’Italia ha non solo il diritto ma anche il dovere e quasi l’obbligo di svolgere nel “suo” Mediterraneo, dove sono minacciati i suoi supremi interessi nazionali e la sua sicurezza. L’Italia è l’unico grande paese europeo che può opporsi alla diarchia franco-tedesca perché questa è, in sostanza, sul piano geopolitico l’Unione Europea. Da quando è nata, Germania e Francia non hanno mai concepito una politica estera comune, ma hanno curato i loro interessi nazionali, spartendosi aree di influenza corrispondenti per la Germania all’Europa centrale fino ai Balcani, e per la Francia ai paesi del sud e al Mediterraneo. Perciò, l’Unione Europea, oltre che un organismo sovranazionale a tutela degli interessi di ceti finanziari, di unioni bancarie, di cartelli di produzioni multinazionali, si è rivelata, intesa come diarchia, anche uno strumento di potere geopolitico in versione brutalmente neocoloniale. All’interno di questa compagine la Francia non ha mai abbandonato l’antica velleità di considerare il Medio Oriente e l’Africa del Nord una sorta di suoi protettorati.

 

Va osservato che, mentre l’egemonia geopolitica tedesca si estende tutta, grosso modo, all’interno del perimetro europeo, quella francese tracima e dilaga su territori extracontinentali. Fino a oggi, l’intesa a due dentro l’Unione Europea ha consentito alla politica estera francese di dissimulare una costante pregiudiziale anti-italiana, considerando l’Italia un paese irrilevante da tenere all’angolo e da indebolire, sistematicamente, fin dagli anni Sessanta del secolo scorso, con una ostilità sorda, sommersa, ma oggi difficile da sottacere o camuffare. I ‘cugini’, ostinati nel loro “complesso di superiorità” e di grandeur, non hanno mai placato le loro ambizioni egemoniche, culminate nel 2011 con la scellerata aggressione alla Libia. Appoggiata dai Dem americani di Obama, sempre presenti ma defilati per non sporcarsi le mani, la guerra perseguiva lo scopo principale di sottrarre all’ENI il petrolio di Gheddafi e guastare a Roma i buoni rapporti con Tripoli. Il caos, in cui precipitò la Libia dopo l’uccisione del Colonnello, fu la prima fase di un piano di riassetto dell’intera area nordafricana, che mostrò una nuova spartizione dell’influenza in queste zone ricche di risorse, a discapito della presenza italiana. Ora, al centro della contesa italo-francese non sta soltanto la Libia, crocevia tragico di flussi migratori, ma anche un paese vitale per la nostra sicurezza come la Tunisia e il Sahara, dove transitano e si formano i gruppi terroristici. Con l’assassinio di Gheddafi, con l’appoggio francese alle forze cirenaiche, con il colpo di stato interno del dicembre 2011, con le ondate dei migranti, non è esagerato affermare che l’Italia, in conflitto di fatto con la Francia, ha subito la peggiore disfatta della sua storia dalla Seconda guerra mondiale.  La ripresa dei flussi migratori dalle coste libiche ha schiacciato il nostro Paese in difesa nel “suo” mare in uno scontro ora palese sui migranti, ma che cela quello sostanziale sul controllo del petrolio e delle risorse nordafricane. È un conflitto che smentisce la favola pluridecennale narrataci dagli impostori politici e mediatici sull’Unione Europea come garante, in assenza di una politica estera comune, della pace e della concordia tra gli stati membri.

 

L’immigrazione massiccia e incontrollata, – fenomeno anch’esso di libera circolazione – interno al disegno politico attuato con la moneta unica e i trattati, rientra nella logica del sistema liberista. Quasi inavvertito nei mesi successivi alla morte di Gheddafi, è poi proseguito con il governo Monti in un crescendo che ha colto di sorpresa il popolo italiano che, dal 2012, osserva riversarsi in Italia flussi ininterrotti di migranti. Dirigenti infami, interni ed esteri, disapplicando accordi europei di redistribuzione comunitaria, hanno deliberatamente bloccato migliaia di persone entro i nostri confini. Il fenomeno è di proporzioni tali da far intuire l’applicazione di un piano condiviso e giocato tra accondiscendenze nostrane e imposizioni estere, mirato a destabilizzare l’Italia.  Traghettamenti e sbarchi che avvengono tramite flotte di navi ong, definite ipocritamente umanitarie, sempre più numericamente consistenti e sventolanti variegate bandiere, non possono che essere organizzati e finanziati da centri di potere stranieri. I migranti, dei quali – è ormai assodato – solo il 7% fugge da una guerra, concentrati nei centri italiani, fungono da solvente sociale versato e sparso per indebolire il Paese dall’interno ed esporlo, economicamente stremato, alla progressiva disgregazione territoriale e sociale: conseguenza non colta o lucido obiettivo di annientamento a lungo termine? La guerra libica e l’incipit immigratorio palesò l’abituale autolesionismo italiano, espresso da una masnada di dirigenti “democratici”, alcuni dei quali anche presidenti del consiglio, storicamente cooptati o corrotti dalla gauche francese. Nell’ultimo decennio questa legione straniera, infliggendo politiche di austerità e di frontiere aperte, ha prodotto il collasso politico-elettorale propedeutico all’esecutivo gialloverde. Il nuovo governo, mutando radicalmente la politica estera italiana, ha recuperato una certa autorevolezza rispetto ai governi precedenti (obiettivo di facile conseguimento e di non eccessivo sforzo, considerato il grado di estrema abiezione in cui le schiene curve l’avevano precipitata).  Il merito può essere attribuito ai cittadini elettori che, rivolgendosi verso le istituzioni, riscoprono inaspettatamente lo Stato nazionale e il valore delle frontiere e la loro difesa. La presenza dello Stato, sollecitata per trovare soluzioni alla dimensione immigratoria difficilmente integrabile o assimilabile nell’arco di pochi anni, può diventare l’intervento invocato anche dal bisogno di difendersi dalle devastazioni sociali del sistema liberista. Se il governo italiano riuscisse a bloccare gli sbarchi e con essi il piano di destabilizzazione dell’Italia, acutizzando, di conseguenza, il livello di scontro sulla Libia, e dunque il conflitto geopolitico con la Francia, la diarchia franco-tedesca potrebbe andare in crisi, entrando in una fase di instabilità politica, che provocherebbe un ricambio di ceti dirigenti ai vertici dei due paesi tramite un’affermazione elettorale di forze e partiti “populisti”. È a quello stadio che la diarchia alias Unione Europea avvierebbe l’implosione, prima ancora che un governo di un qualsiasi paese membro possa o voglia tentare un’uscita dall’euro o un irrealistico riesame dei trattati. La decomposizione potrebbe accelerare il suo corso, non solo perché il blocco alla libera circolazione delle persone, – specie se accompagnato per corollario anche dalla sospensione di “Schengen” -, avrebbe conseguenze sul mercato del lavoro – esito da non sottovalutare -, ma anche perché innesterebbe un effetto domino sugli altri fattori che reggono il sistema dell’economia liberista, ossia merci, capitali e servizi. Non sarà automatico, ma è quello che può succedere. La Germania ordoliberista non può rinunciare a “Schengen” senza rischiare il crollo dell’intero sistema.

 

Delle conseguenze geopolitiche di un blocco totale ed intransigente dell’immigrazione i membri del governo italiano potrebbero non avere chiaro intendimento; e può darsi che il ministro degli Interni stia muovendosi al solo scopo di mantenere promesse elettorali, su cui ha messo la faccia e scommesso il suo destino politico, ma indirettamente, lui ignaro di sommovimenti che lo sovrastano, starebbe lavorando obiettivamente per lo scioglimento dell’Unione Europea, propiziato da un conflitto geopolitico al di fuori della sua area. Se la Francia di Macron, accecata da vana cupidigia neocoloniale fino al punto di considerare l’immigrazione come arma di guerra geopolitica, non riuscirà a domare uno stato membro troppo a lungo considerato una servile colonia, l’Unione Europea potrebbe rivelarsi una “tigre di carta” e dissolversi prima ancora di quanto si speri o si auspichi, o si progetti. Se impossibile o remota si presenterà una tentata strategia comunitaria sui flussi umani, la questione migratoria travolgerà fatalmente il progetto eurounionista, rivelando l’Unione Europea istituzione debole e incapace di controllare e di ricomporre gli interessi diversi o addirittura opposti dei tre paesi più grossi. Alla lunga un organismo, tenuto insieme solo da moneta e ordoliberismo, non potrebbe garantire la coabitazione di paesi che confliggono sul pianerottolo di casa per totale disaccordo sulla gestione dei flussi e dell’accesso alle risorse di territori extraeuropei. La convivenza diventerebbe impossibile, specie se l’attuale governo americano, espressione di un altro State non più deep, non intenda agevolare i progetti neocoloniali francesi sul nord Africa, né quelli tedeschi sui mercati globali. A quel punto per l’unione europea può prospettarsi una critica scissione a catena, a fronte della quale la Brexit, primo sintomo della crisi, retrocederebbe storicamente a preannuncio di scarsa importanza.

 

Gli eventi si muoveranno in direzioni impreviste e imprevedibili fino a pochi anni fa. Per la prima volta, dopo decenni di asservimento, si aprono per l’Italia spazi di manovra diplomatica sia sulla sponda mediterranea che su quella atlantica, – sempreché ceti dirigenti ne siano all’altezza – per recuperare, almeno in parte, un’autonomia di Stato indipendente ma non ancora sovrano, non solo a livello politico, ma anche economico e finanziario. Infine, la competizione geopolitica esplosa all’interno della UE per assicurarsi l’influenza su territori extracomunitari, riporterebbe la politica in primo piano e confermerebbe che il primato dell’economia può e deve essere un fenomeno storicamente provvisorio.  Niente sta ineluttabilmente scritto. Prima o poi l’ambizione di esercitare il potere da parte di nuovi ceti non espressi dalla finanza o dai mercati, o il subentro di nuove oligarchie ai vertici di stati sovrani, predomina e annienta qualsiasi pretesa di dominio sui popoli da parte di finanzieri e mercanti. Prima o poi una reazione popolare, inizialmente prepolitica, prende inaspettatamente il sopravvento, diventa consapevole istanza politica e spazza via tutto un sistema di libera e globale circolazione di capitali, merci e persone, a prescindere dalla volontà di uomini che si illudono di padroneggiare gli avvenimenti in corso senza fare i conti con la Storia.

 

Luciano del Vecchio

 

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