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9 Agosto 2018

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Da Comedonchisciotte del 25-7-2018 (N.d.d.)

 

Accattone. La magnifica contraddizione di Accattone, il primo film di Pier Paolo Pasolini: passare alla storia come una denuncia delle condizioni di vita del sottoproletariato romano del primo dopoguerra e, invece, essere molto altro (o tutt’altro). Per decenni ci è stato detto che Pasolini portò alla luce la vita miserabile delle borgate per poi, da comunista, auspicare una redenzione attraverso l’attivismo politico e precise rivendicazioni sindacali e sociali. Può darsi che questa fu la sua prima intenzione conscia; ma, sotto la pelle del suo marxismo immaginario, covava ben altro. Mao, Stalin, la Cina è vicina, la semiotica, e va bene; ma ciò ch’egli in fondo desiderava, con tutto il fuoco delle proprie viscere, era l’esatto contrario: la cristallizzazione di quel proletariato, così puro nella sua essenza anticapitalista, il “Fermati, sei bello!”: l’eternità d’esso. La colonna sonora di J. S. Bach, da La Passione secondo San Matteo, ne sanciva addirittura la sacralità. Pasolini arrivò a Roma nei primi mesi del 1950; per lui, nato a Bologna e vissuto in Friuli, la scoperta dei suburbi capitolini rappresentò una vertigine pari a quella provata dalla turista inglese di Passaggio in India. Le distese interminabili della campagna romana, brulle e cespugliose, piatte come un olio, ove l’occhio, liberato dalle costrizioni della città, poteva vagare liberamente e trovare, sepolte da fioretti e porrazzo, gli enigmatici ruderi di una civiltà sopravvissuta ai millenni (acquedotti, altari sbrecciati, chiese diroccate, ponti, casali medioevali) ne colpirono l’immaginazione, da sempre devota alla classicità; e la realtà delle borgate, che in quella campagna fiorivano, improvvise come ciuffi d’erba vetriola, e gravide di solitudine e di genti misteriose, sconvolse la sua visione della storia e della bellezza. Camminare lento lungo le vie rettilinee di Primavalle, perduta a nord di Roma, fra prati dolci e ondulati di papaveri, coi suoi lotti giallini sovrastati da un implacabile cielo cobalto, o far visita, lui intellettuale del Nord, ai poveracci dell’Acquedotto Felice, fu uno shock culturale e il principio di un innamoramento che non avrebbe mai più tradito. La plebe che qui formicolava, poi, era la stessa di Petronio e Belli, brutale, rutilante, festosa e menefreghista; assomigliava, in tal modo, alle plebi di tutto il mondo, dallo Yemen alla Siria, e godeva di regole tutte proprie, di un proprio linguaggio e di una distinta e orgogliosa etica distillata nelle viscere di un tempo immutabile. Accattone fu il tentativo di rappresentazione di queste plebi, ma solo superficialmente si indurì quale denuncia sociale; intimamente, invece, fu la confessione che il sottoproletariato bizzoso di Roma, scansafatiche, arrogante e fatalista, costituiva l’unica poetica sacca di resistenza al nuovo che avanzava, orrendo e volgare. Pasolini, insomma, si sdoppiò: la parte cosciente, marxista, comunista, politica, auspicava il progresso; la parte segreta del suo cuore, misoneista e conservatrice, desiderava ardentemente che quegli uomini e quelle donne rimanessero per sempre nella propria condizione poiché il loro modo di vivere, pur duro e spietato, era l’unica possibilità di preservarsi intatti dalla corruzione della modernità e del consumismo. Nella miseria si trovava annidata la felicità. Per questo fu definito pauperista, esteta, reazionario; per gli stessi motivi la destra antimoderna lo riscoprì negli anni Novanta, quando molotov, P38 e manganelli furono definitivamente seppelliti come asce di guerra. Innumerevoli esempi egli ci lasciò di tale verità, che condensò nella figura del cascherino (il garzone del fornaio), vitale e strafottente, libera come un passeretto, gioiosa senza sapere d’esserlo: un archetipo impersonato, a metà degli anni Settanta, in una pubblicità di crackers (i tempi cambiano!) proprio da Ninetto Davoli. Nel tempo, Pasolini arrivò addirittura a rimpiangere lo stile urbanistico delle borgate, quell’architettura fascista che aveva dapprima mosso la sua ironia, ma di cui aveva poi riconosciuto, sotto la spinta di una ineluttabile maturazione, la forza assieme realistica e metafisica, nonché la profonda empatia. I muri sbrecciati del Pigneto (oggi quartierino mezzo radical-chic e mezzo immondezzaio) che si vedono in Accattone, i cortili assolati, le scalette, persino le case minime, quelle col bagno all’esterno, erano cose fatte e pensate sì per un’umanità bassa, ma un’umanità dall’esistenza piena, normale, pur vissuta nelle difficoltà e nell’abiezione che la miseria si porta appresso. L’Italia, durante il Fascismo (e a dispetto del Fascismo), rimase davvero sempre identica a sé stessa, normale, tradizionale; e le sue case, che ospitavano uomini e donne non ancora corrotti, avevano a rispecchiare tale eterno ritorno dell’eguale, e una innocenza da tutelare contro gli assalti di un futuro odioso e allucinante. La riprova di tale intuizione è sotto gli occhi di tutti: basti confrontare la quieta malinconia dei palazzi littori di Primavalle o del Trullo con la follia psicopatica di Corviale (ideato e realizzato dalle giunte e dagli architetti del PCI); oppure, nello stesso quartiere (l’Eur) confrontare la monumentale razionalità del Colosseo Quadrato, del Palazzo dei Congressi e degli edifici di Largo Agnelli con gli orribili grattacieli in vetrocemento del dopoguerra, antesignani dell’ultimo disastro, estetico ed economico, ordito in loco dal sinistro Fuksas con la sua Nuvola miliardaria. Nel 1961, quando uscì il film, tale rovello interiore non era pienamente manifesto; in pochi anni, tuttavia, divenne evidente, e riconosciuto per tale da Pasolini stesso che ne tacque, tuttavia, le estreme conseguenze storiche e logiche: un’autocensura fatta per pudore o magari in ossequio al quieto vivere borghese, per non urtare la suscettibilità delle amicizie alte, da Alberto Moravia a Italo Calvino a Elsa Morante. Affermare, durante l’ascesa del PCI, che il Partito ormai condivideva gli stessi obiettivi liberali e consumisti della piccola borghesia democristiana e capitalista mondiale l’avrebbe portato alla riprovazione e alla dannazione (che, poi, vi fu, seppur sotterranea); solo nel 1975, a ridosso della morte, egli vuotò il sacco sino in fondo sino a prospettare, di fatto, l’uscita ideologica dal Partito Comunista. Questa contraddizione insanabile, allora scandalosa, è oggi sotto gli occhi di tutti.

 

Alceste

 

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