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Il pił grande delitto di tutti i tempi PDF Stampa E-mail

7 Novembre 2018

 

Da Comedonchisciotte del 5-11-2018 (N.d.d.)

 

Prima di ogni cosa, ce n’è stata un’altra. Però il 1914 è quanto di più somigli a un inizio, al Grande Delitto. Di cui stiamo sempre e solo a guardare la coda, la seconda guerra mondiale. Ai due capi di questa guerra dei Trent’anni, c’è la rimozione nella rimozione, l’imperialismo. L’immenso sistema di trasporti su ruote che rese possibile la strage fu avviato soprattutto da re Leopoldo del Belgio, un noiosissimo signore il cui personale stato-azienda, alla ricerca della gomma, fece morire un numero di congolesi stimato, in maniera attendibile e non propagandistico (i congolesi non si facevano propaganda), tra i tre e i dieci milioni. Mentre pochissimi ricordano che l’uranio che servì per annientare gli abitanti di Hiroshima e Nagasaki fu estratto grazie alla provvisoria reintroduzione del lavoro forzato dei nipoti dei congolesi sopravvissuti.

 

Dal 1914 tutto scorre insieme verso i lager e Hiroshima e le altre cose ben note. E forse non finisce nemmeno lì: le storie dei Balcani, della Palestina, dell’Iraq hanno sempre le radici nella distruzione dell’impero ottomano. Tra il 1914 e il 1918, circa 40 milioni di esseri umani sono stati messi atrocemente a morte, per i motivi più futili che si possano immaginare; 70 milioni nella Seconda guerra mondiale, e Dio solo sa quanti in mezzo. E parliamo solo dei morti: non delle altre decine e decine di milioni di mutilati e di profughi […]

 

L’Italia in tutto questo gioca un ruolo creativo: se c’è una data che viene prima del 1914, è il 1911, anno in cui l’Italia decise di invadere senza alcun motivo plausibile la Libia. Fu una guerra strana, perché non aveva motivi economici o politici sensati: in grandissima parte fu mossa, contro il parere dei politici, dal mondo dei media, dello spettacolo, dei giornalisti cialtroni e bugiardi e dai cialtroni a tutto campo, come Gabriele D’Annunzio che mandava in giro per i teatri d’Italia una jeune-fille per la quale aveva inventato il nome Gea della Garisenda, vestita solo con il tricolore, a cantare Tripoli bel suol d’amore, subito ripresa dai grammofoni e dagli organetti. Ma l’invasione della Libia scatenò una crisi nell’impero ottomano che avrebbe portato alle guerre balcaniche e all’omicidio di Sarajevo. Quando ci fanno una testa così con il fascismo, non ci ricordano mai che un altro cialtrone inconfondibilmente italico, Benito Mussolini, iniziò la sua seconda carriera scegliendo rumorosamente di prendere parte al Delitto. Il fascismo nasce allora come crimine, solo che è lo stesso crimine che ad altri ha meritato piazze, vie e monumenti. Il più grande crimine di guerra è la guerra stessa. E quel crimine non fu commesso dai cattivi di comodo del nostro immaginario: i “fanatici“, suddivisibili secondo i gusti in musulmani, comunisti, laicisti, clericali. Anche i fascisti ne sono i figli, ma non i padri. Il più grande delitto di tutti i tempi fu commesso da uomini politici e signori dell’economia che rappresentavano per la maggior parte stati che avevano almeno qualche forma di parlamento e di suffragio universale (maschile); che rivendicavano almeno una certa indifferenza o tolleranza religiosa; e che praticavano tutti qualche forma di libera economia capitalista. Sono anni che mi soffermo davanti alle lapidi della gente che questi signori hanno assassinato. Ce ne sono ovunque, basta notarle: immagino dal Canada al Sudafrica, dal Portogallo alla Siberia. Certo, ce ne saranno tanti rimasti senza lapide: i messicani morti a lavorare i campi perché l’esercito americano avesse da mangiare in Francia, gli indiani alla fame per nutrire l’esercito britannico, i portatori, i negri di ogni latitudine… A volte i monumenti sono decorati da una sorta di simil-hurì che la borghesia prometteva ai morituri: la Grata Memoria Patria, marmorea velina che lascia intravedere una tetta mentre incorona con l’alloro ciò che resta delle reclute agonizzanti. Oppure, chi ha perso un figlio può ammirare, al suo posto, un muscoloso bruto di bronzo dallo sguardo anonimo, che addita la Gloria e il Futuro ai piccioni che si siedono sulla sua testa. […]

 

Miguel Martinez

 

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