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Intervista a Pallante sulla decrescita PDF Stampa E-mail

14 gennaio 2008

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La decrescita, cioè il ritirarsi dell’espansione tumorale che viene chiamata “crescita economica” (o Sviluppo, o per meglio dire rincorsa senza limiti e senza senso del profitto per il profitto, sulla pelle di chi vorrebbe vivere dignitosamente senza ammazzarsi di lavoro), ci sarà. Secondo Maurizio Pallante (Movimento Decrescita Felice) avverrà in ogni caso. E, visto che non sarà una nostra scelta ma ci sarà imposta dall’inevitabile collasso dell’economia globale, sarà “disastrosa”. Pallante - che parlerà questo venerdì 18 gennaio a Vicenza in un incontro organizzato dal Movimento Zero locale con gli Amici di Beppe Grillo (vedi www.movimentozero.org), e prossimamente replicherà a Milano in accoppiata con Massimo Fini - propone invece una via consapevole, autodeterminata, “felice” appunto. Salviamoci finchè siamo in tempo. Serve la politica. Ma qui manca ancora una visione del cosa e del come. In altre parole, occorre trasformare un auspicio in concreto appello, in soluzione necessaria. Ciò su cui si potrebbe puntare sono le motivazioni profonde di una ritrovata dignità: l’ingiustizia sociale, il troppo lavoro e per giunta in condizioni precarie, lo strangolamento del proprio tempo (i cui residui vengono definiti tempo libero, sottintendendo che quello lavorativo è “tempo schiavo”), l’imposizione di divieti, tasse e regole sempre più minuziose e oppressive, l’indebitamento verso gli strozzini bancari, l’arroganza delle lobby di pochi privilegiati sulle esigenze dei comuni cittadini. Tutte possibili leve per far saltare il coperchio della rassegnazione e della paura di rialzare la testa. (a.m.)
Qual è la differenza fondamentale fra l’economia della crescita, cioè il capitalismo moderno basato sul profitto, e l’economia della decrescita felice?
L’economia della crescita è finalizzata ad aumentare di anno in anno la produzione di merci, ovvero di oggetti e servizi scambiati con denaro. Il parametro che utilizza per misurare i suoi risultati è il prodotto interno lordo (PIL): un indicatore quantitativo che non prende in considerazione la qualità effettiva e l’utilità delle merci prodotte. Pertanto computa anche le produzioni inutili e dannose a cui, per colmo d’ironia, aggiunge il valore monetario dei lavori di ripristino che eventualmente venissero fatti. L’economia della decrescita utilizza invece criteri di valutazione qualitativi. I suoi riferimenti non sono le merci prodotte, ma i beni, cioè gli oggetti e i servizi che apportano un’utilità effettiva, per cui si propone le riduzione della produzione di merci che non sono beni e l’aumento della produzione di beni che non sono merci. Due esempi. Per riscaldare le case in Italia si consumano mediamente dai 15 ai 20 litri di gasolio (o metri cubi di metano) al metro quadrato all’anno. In Germania, in Alto Adige e in alcuni comuni italiani i regolamenti edilizi non consentono di costruire edifici che ne consumino più di 7, ma i migliori arrivano a consumarne 1,5. Dai due terzi ai nove decimi dell’energia che si mette negli edifici si spreca disperdendosi nell’atmosfera a causa della cattiva coibentazione. L’energia sprecata è una merce ma non un bene. Le case ben costruite riducendo il consumo di questa merce fanno diminuire il Pil ma migliorano il benessere di chi le abita e la qualità dell’aria. Analogamente, chi autoproduce la frutta e la verdura in un orto familiare non la va a comprare al supermercato e quindi fa decrescere il Pil ma migliora la qualità della sua vita e non avvelena la Terra. In questo caso si tratta di un bene che non è una merce. Se si effettua la distinzione tra merci e beni, che ci viene accuratamente nascosta, la decrescita diventa fattore di una maggiore felicità.
Cosa rende necessario convertirsi alla decrescita?
La crisi ambientale. La crescita della produzione di merci comporta una crescita del consumo di risorse che sta avvicinando l’esaurimento delle risorse energetiche non rinnovabili, l’uso di tecnologie che per accrescere la produttività causano forme sempre più gravi di inquinamento, la crescita dei rifiuti. Questi processi stanno alterando irreversibilmente gli equilibri fisici, chimici e biologici che hanno consentito lo sviluppo della specie umana. I carotaggi effettuati sul ghiaccio antartico hanno rivelato che fino a 650.000 anni fa le concentrazioni di anidride carbonica nell’atmosfera non hanno mai superato le 270 parti per milione. Nel secolo scorso sono arrivate a 380 parti per milione. Dal 1905 al 2005 la temperatura media della Terra è aumentata di appena 0,74 gradi. E questo piccolo aumento ha scatenato le conseguenze climatiche che conosciamo. Ora l’IPCC, l’Unione Europea e il rapporto Sterne ci dicono che dobbiamo ridurre le emissioni di CO2 del 20 % entro il 2020 (a Kyoto l’impegno assunto a livello mondiale era una riduzione del 5,2 % entro il 2012) e se saremo capaci di farlo la temperatura della Terra salirà solo di 2 gradi (più del doppio del secolo scorso). Altrimenti uscirà fuori di ogni possibilità di controllo e se raggiungerà i 4 gradi verranno meno le condizioni che hanno consentito lo sviluppo della nostra specie. La decrescita ci sarà. Se continueremo a credere che lo scopo dell’attività produttiva sia la crescita del Pil, la decrescita sarà improvvisa e disastrosa. Se cambieremo strada potrebbe essere felice.
La decrescita è solo una scelta culturale ed esistenziale di tipo individuale, o necessita di un’attuazione politica? E come, dato che la politica, oggi, è sostanzialmente alla mercè degli interessi di banche, finanza e industria e, sul piano globale, dei mercati mondiali?
La decrescita si può realizzare agendo su tre direttrici. E’ come uno sgabello a tre zampe. Se ne manca una cade. Una è il cambiamento degli stili di vita. Sobrietà al posto del consumismo. Una è il cambiamento delle innovazioni tecnologiche: non devono più essere finalizzate ad accrescere la produttività, ma a ridurre il consumo di risorse, materie prime, energia  e rifiuti per unità di prodotto e servizio fornito. La terza è la politica, che può e deve indirizzare le scelte collettive verso i primi 2 obbiettivi. Se una famiglia vuole ridurre il consumo energetico della sua casa e ci sono aziende in grado di fornire i prodotti necessari per farlo, il collegamento tra la domanda e l’offerta non può che essere costituito dall’approvazione di un regolamento edilizio che non consenta di costruire edifici se consumano più di 7 litri di gasolio (o metri cubi di metano) al metro quadrato all’anno. Sulle scelte politiche a livello nazionale è più difficile intervenire, ma a livello locale, dove il rapporto con le istituzioni è più diretto, si possono ottenere risultati importanti. Come dimostrano quelli già ottenuti.
Rispetto alla decrescita che ruolo ha, politicamente e economicamente, la dimensione locale? Si accompagna a un recupero delle forme di autogoverno locale?
In parte la mia ultima risposta ha anticipato questa domanda. Di più c’è da dire che mentre l’economia della crescita nella fase attuale non può che realizzarsi attraverso forme di globalizzazione sempre più spinta, la decrescita comporta la riscoperta e la valorizzazione delle economie autocentrante, che valorizzano le risorse locali.

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