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Un nuovo socialismo PDF Stampa E-mail

4 Febbraio 2020

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Da Rassegna di Arianna dell’1-2-2020 (N.d.d.)

 

[…] Si è detto che oggi non esiste un soggetto rivoluzionario definibile apriori, in base alla presunta contraddizione oggettiva fra i suoi interessi e quelli del capitale, che si tratta, piuttosto, di costruire un blocco sociale in cui far convergere l’insieme dei soggetti sociali più colpiti dal processo di globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia; si è aggiunto che questa coalizione non è identificabile solo in base ai differenziali di reddito e di status ma anche a quelli di mobilità e appartenenza territoriale, e che la lotta di classe tende a fondersi con i conflitti fra nazioni dominanti e nazioni periferiche, Sud contro Nord, Est contro Ovest, Occidente contro Asia, Africa e America Latina anche se ogni Paese ha al proprio interno le sue periferie e i suoi centri, i suoi nord e i suoi sud, i suoi ovest e i suoi est.

 

Questo scenario complesso non giustifica esitazioni e ambiguità nel tracciare il confine amico/nemico sia a livello nazionale che a livello globale. Politica e geopolitica devono rispecchiarsi nello sforzo di definire uno schieramento mondiale delle forze che si oppongono alle élite mondialiste, sfruttando le contraddizioni interimperialistiche che aumentano a mano a mano che il processo di globalizzazione perde inerzia e crescono le controtendenze al conflitto fra potenze mondiali, regionali e locali. Questo vuol dire che chi si propone di lottare per il socialismo non deve solo ridefinire cosa significa socialismo nell’attuale contesto storico, ma anche prendere in considerazione la possibilità che, per vincere nella lotta contro il capitalismo, occorra allearsi con culture anche molto lontane dalla nostra. Provo a spiegarmi con alcuni esempi concreti. Le rivoluzioni bolivariane (Venezuela, Ecuador e Bolivia) non sono state rivoluzioni socialiste, in quanto, pur avendo riconquistato il controllo sulle risorse naturali per finanziare politiche sociali avanzate, neowelfariste, nazionalizzato alcuni settori strategici, condotto politiche redistributive a favore delle classi subalterne e tentato di riconquistare la sovranità nazionale sganciandosi dai diktat del Washington consensus, non sono andate oltre un orizzonte riformista radicale che potremmo genericamente definire postneoliberista. Dalla loro esperienza, malgrado le recenti sconfitte, emergono tuttavia importanti insegnamenti. Da un lato, come spiega bene nei suoi scritti il vicepresidente boliviano Linera, la forza trainante di queste rivoluzioni sono state le comunità indigene, portatrici di una visione comunitaria che si è opposta alla colonizzazione capitalista in nome dei principi e valori di culture tradizionali e non di una modernizzazione di tipo occidentale. Dall’altro a condurre le controrivoluzioni sono stati quei ceti medi urbani (ivi compresi i movimenti orientati a sinistra) che, ancorché beneficiati dalle riforme dei nuovi regimi, hanno voltato loro le spalle non appena richiesti di affrontare sacrifici per sostenere le politiche sociali anche quando la pressione dei mercati globali sulla rivoluzione si è fatta più incalzante.

 

Passiamo all’esempio cinese. Gli studiosi marxisti hanno pareri discordanti sulla natura del regime cinese. C’è chi pensa si tratti di una Paese compiutamente tornato nell’ambito del sistema capitalistico, che compete con Stati Uniti, Giappone ed Europa per spartirsi il mercato mondiale, e c’è invece chi (Amin, Arrighi e altri) lo considera piuttosto come un sistema socialista con presenza di mercato o un’economia non capitalista con capitalisti. Senza addentrarci in questa diatriba teorica vediamo i dati di fatto: 1) per universale ammissione anche da parte degli economisti liberisti, il boom cinese non è frutto di una piena conversione al capitalismo quanto del persistente ruolo di intervento, coordinazione e organizzazione dei flussi di capitale da parte del partito-stato; 2) le privatizzazioni sono state graduali e parziali mentre lo stato mantiene il controllo su settori strategici e sistema bancario; 3) i servizi fondamentali continuano a essere pubblici; 4) le imprese statali non seguono le regole del massimo profitto ma tengono conto dell’esigenza di garantire elevati livelli di occupazione; 5) lo sviluppo e la crescita appaiono orientati in misura crescente a privilegiare l’espansione dei consumi interni; 6) malgrado la presenza di forti disuguaglianze i redditi salariali sono quelli che crescono più rapidamente; 7) anche dopo l’abolizione delle comuni l’accesso alla terra continua a essere garantito a centinaia di milioni di contadini; 8) la logica degli investimenti esteri è orientata alla creazione di infrastrutture che favoriscono lo sviluppo dei Paesi periferici e non alla speculazione finanziaria di tipo occidentale. Ma soprattutto: la borghesia cinese accumula ricchezze ma non è riuscita almeno finora a ottenere il controllo sullo stato, che resta saldamente nelle mani del partito, per cui la politica continua a comandare sull’economia. Insomma, non socialismo secondo la definizione della tradizione occidentale ma una peculiare forma di socialismo che mescola principi e valori confuciani a quelli marxisti.

 

Potremmo aggiungere qualche riflessione sul ruolo dei valori egualitari della religione islamica – in particolare degli sciiti e dei fratelli musulmani – nell’ispirare la resistenza di alcuni Paesi del Medio oriente e dell’Africa settentrionale nei confronti della penetrazione dei valori occidentali. Il che ci riporta alle riflessioni critiche sui limiti del modernismo progressista che, come detto in precedenza, ha agito da canale di penetrazione dell’egemonia capitalista nella cultura del movimento operaio. Il che non significa che l’obiettivo sia quello di riesumare modi di produzione e di vita precapitalistici, ma piuttosto che è quello di immaginare un socialismo del secolo XXI che sappia favorire un progresso autentico, misurabile in termini di crescita civile e non di potenza tecnologica, economica e militare. Un socialismo che non pretenda di abolire il mercato, inseguendo utopie che si sono rivelate fallimentari, ma impari a farne buon uso (per usare un’espressione di Arrighi) imbrigliandone gli spiriti animali e tenendolo sotto stretto controllo politico. Un socialismo rispettoso dell’ambiente e orientato allo sviluppo basato sulla domanda interna e la piena occupazione. Un socialismo che miri alla creazione di un sistema economico mondiale equilibrato e rispettoso delle identità nazionali (comprese quelle culturali e religiose). Per avanzare in tale direzione credo occorra rispettare prioritariamente due imperativi: 1) sul piano interno, lavorare alla costruzione di un blocco sociale anticapitalista che eviti di sacrificare gli interessi degli ultimi a quelli delle classi medie, restando consapevoli che queste non ricambiano mai tali attenzioni con la moneta della fedeltà politica; 2) sul piano internazionale, imboccare la via di una politica estera che rompa la dipendenza da Berlino e Washington e privilegi i rapporti con Cina, Russia, Brics e Paesi mediterranei.

 

Carlo Formenti

 

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