Avviso Registrazioni

Scusandoci per l'inconveniente, informiamo i nuovi utenti i quali desiderino commentare gli articoli che la registrazione deve essere fatta tramite Indirizzo e-mail protetto dal bots spam , deve abilitare Javascript per vederlo

Login Form






Password dimenticata?
Nessun account? Registrati

Cerca


 
  SiteGround web hostingCredits
Big other PDF Stampa E-mail

6 Giugno 2020

Image

 

Da Rassegna di Arianna del 3-6-2020 (N.d.d.)

 

L’argomento che affrontiamo è solo apparentemente minore, o futile, o riservato a una strana fauna subumana, quella dei tifosi del calcio. Il 20 giugno prossimo riprende il campionato di calcio: alleluia brava gente! Non ci iscriviamo al partito dei moralisti indignati: lo sport professionale muove interessi miliardari, contribuisce al benessere, dà lavoro a una quantità infinita di categorie professionali, dai calciatori agli allenatori, dai giornalisti ai venditori di bibite e gadget allo stadio. Le tasse pagate all’Erario contribuiscono al bilancio pubblico con grandi cifre. Ugualmente, non riusciamo a essere soddisfatti: riparte solo lo sport di vertice, quello che interessa le televisioni, domines uniche del grande affare del pallone. Tutti gli altri, i professionisti più poveri, i dilettanti e il resto dell’agonismo sportivo, può aspettare: bambole, non c’è una lira, se non vi chiamate Cristiano Ronaldo e non partecipate alla grande torta dei diritti televisivi. Abbiamo assistito a una trasmissione di un’emittente piemontese sulla ripresa degli allenamenti della pallapugno, o pallone elastico, uno sport di nicchia, popolarissimo nelle Langhe, nel Monferrato e nel ponente della Liguria, pressoché sconosciuto altrove. Con rigore subalpino, l’allenatore di una squadra di serie A elencava tutte le prescrizioni per i suoi atleti, ciò che possono – e soprattutto non possono fare- nel corso delle sedute individuali e di gruppo (distanziati, ovviamente!). Con rassegnazione, non sapeva esprimersi sulla possibilità di riprendere il campionato, che muove un folto pubblico negli sferisteri di provincia, ha i suoi idoli e alimenta un giro di scommesse non trascurabile.  La pallapugno non interessa i broadcaster, i giganti della televisione: pollice verso per gli eroi di paese dalla mano avvolta nel guanto con cui si colpisce la palla.  Al contrario, il calcio di vertice ricomincerà: senza pubblico, con un tour de force serale in piena estate, ma i bilanci sono salvi. Le novità sono straordinarie: esiste un piano B in caso di recrudescenza del virus: se proprio non si potesse giocare, potrebbe entrare in azione un algoritmo. In base alle informazioni su squadre e protagonisti, fornirà con precisione e senza timore di errori il risultato delle partite. Non abbiamo dubbi sul vincitore: chi controlla il modello matematico, quindi il potere. Nomi e cognomi, ragioni sociali delle squadre più potenti li metta il lettore. Ci permettiamo una divagazione: Shoshana Zuboff, nel suo Capitalismo della sorveglianza fa una riflessione di cruciale importanza, che vale per l’intero sistema di potere – di cui lo sport di vertice è un’espressione - tanto più nel presente caratterizzato dallo tsunami del Coronavirus. Questa fase storica è davvero “senza precedenti”. Ciò che è senza precedenti, l’umanità tende a interpretarlo, erroneamente, ricorrendo a categorie di giudizio familiari. In tal modo “rendiamo del tutto invisibili le sue caratteristiche inedite”. L’esperimento psico sociale innescato dal Covid 19 - non abbiamo timore di chiamarlo così, nel rispetto del dolore e dei lutti- è completamente nuovo, lascia spiazzati proprio in quanto tendiamo a fare paragoni, a dare valutazioni sulla base del passato, mentre esso è unico, inusitato, la concretizzazione di un potere strumentalizzante, la sua espressione in un’infrastruttura onnipresente, senziente, interconnessa e computerizzata che la Zuboff chiama “il Grande Altro”, Big Other.

 

L’alveare post umano in cui ci hanno riformattato non è più in grado di rendersi conto dell’ampiezza dei cambiamenti imposti. Il banco vince sempre, si tratti della finanza, di Big Pharma, dei giganti tecnologici o dei padroni dello sport. La presa del potere dall’alto è riuscita con tale estensione e profondità da non venire quasi più percepita. Nel pieno della rivoluzione fordista, un motto dell’esposizione universale di Chicago del 1933 era: “La scienza trova, l’industria applica, l’uomo si adatta”. Vale anche nello sport e proprio la natura popolare, gioiosa, sentimentale della passione sportiva rende possibile una riflessione che possa arrivare al cuore di qualcuno, minoranza certo, ma attiva, pensante e senziente. In Corea hanno messo sugli spalti, al posto dei tifosi, sagome umane di cartone, rivestite di pubblicità a siti erotici. I tifosi cartonati sostituiscono quelli di carne e ossa, spettacolo nello spettacolo, la componente più sana e genuina del calcio. Poiché le loro urla, la partecipazione emotiva alla gara è tanto importante, c’è chi pensa agli applausi finti, come in certe trasmissioni televisive in cui sono programmate e preregistrate anche le risate. Trasmetteranno, prima o poi, finti incitamenti, l’urlo del gol, magari anche qualche ululato di disapprovazione rivolto all’avversario o all’arbitro: non mancano gli altoparlanti e la tecnologia digitale. Marionette, che passione. Nel neo-calcio post Covid, i giocatori non potranno avvicinarsi troppo all’arbitro e sono sconsigliati gli abbracci successivi ai gol. Importante è solo che la partita si giochi e le televisioni paghino orchestra, musica e suonatori. L’unica voce ammessa è quella del denaro, il fruscio virtuale delle banconote. Magari ci sarà pure qualche tifoso che verserà denari per essere raffigurato sui cartoni posti in gradinata.  Scrive Gigi Marengo, giornalista tifoso del Torino, una delle squadre con i tifosi più passionali: “d’altra parte, che alcuni considerassero i tifosi null’altro che figure cartonate, unicamente votate al riempire gli spalti, non era certo un segreto. Con i fans cartonati, più nessun problema di ordine pubblico e più nessuna necessità di esperimenti sociali. La stragrande maggioranza del tifo organizzato italiano aveva chiesto a piena voce di non far ripartire un campionato ovviamente fasullo. Qualcuno lì ha ascoltati? Ovviamente no, son solo tifosi, mica banchieri. Solo il dio denaro ha avuto voce piena; tutto gli altri zitti e muti, senza diritto di parola.” Verità sacrosante, ma funzionerà, vedrete. Lo stesso popolo (perché viene da scrivere plebe?) che si è chiuso in casa terrorizzato, poi in fila davanti al fornaio inveendo contro chi non rispettava il metro di distanza o non indossava correttamente la maschera di Zorro, salvo uscire in massa al fischio del padrone per osservare le frecce tricolori, sarà felice di assistere alle partite virtuali, senza pubblico, giocate in uno stadio qualsiasi. Perché continuare con la finzione di giocare Sampdoria- Genoa a Marassi, ad esempio, se è più funzionale un altro stadio, pardon un’altra location? Troveranno il modo di farci “interagire “(si dice così) con specifiche applicazioni dei nostri telefonini: potremo tifare dal divano, esultare con un clic e altro ancora.

 

È il mondo nuovo, e non solo nello sport. Basta andare a scuola o in antiquati uffici, basta andare in banca o alla biglietteria della stazione, l’homo novus distanziato, silente, fa tutto da casa. Digito, ergo sum. Intanto, pago per essere dominato, a partire dai tifosi di cartapesta, da salotto, che scuciono fior di quattrini per assistere alle partite a ogni ora del giorno e della notte, in qualunque giorno della settimana. Nel tempo, gli appassionati sono stati prima criminalizzati (chi va allo stadio è un violento, un picchiatore, una bestia da rinchiudere dentro una gabbia), poi costretti, se proprio insistevano a recarsi alla partita, a orari assurdi decisi dall’alto, utili solo alle esigenze della televisione padrona. In ogni caso, sono visibili solo le prestazioni delle squadre più importanti: a nessuno deve interessare il Mantova, il Catanzaro o la Triestina.

 

In vent’anni, se le statistiche non mentono, si è verificata una forte polarizzazione del tifo attorno a poche grandi squadre. Le altre sono ai margini, ricevono denaro, ma sono le briciole, il grosso della torta va ai giganti. Il circo Barnum funziona benissimo: quando Cristiano Ronaldo, straordinario attaccante, ma anche evasore fiscale condannato in Spagna, è approdato in Italia, al ramo calcistico dell’holding Fca, società di diritto olandese con sede legale in America, probabilmente per sfruttare la favorevole legge tributaria promulgata di Renzi a favore dei neo residenti stranieri,  in pochi giorni la sua maglietta “ufficiale” ( ufficiale significa che costa molto di più per il marchio) ha venduto un milione e mezzo di esemplari nel mondo. Il banco vince sempre, ma la colpa è della dabbenaggine popolare. Frattanto, forse per la fame di calcio di molti, la prima partita a porte chiuse del campionato tedesco, il più lesto a riprendere, ha avuto un pubblico triplo della media precedente. Ne abbiamo visto in streaming qualche minuto. Al di là del piacere di vedere nuovamente girare la sfera di cuoio, la nostra impressione – ma certo apparteniamo a una minoranza residuale – è stata quella di una recita silenziosa, senza testimoni, con le uniche urla provenienti dalle panchine degli allenatori. Ci sembrava di assistere a una farsa, un montaggio senza senso.

 

Sospettosi, forse complottisti, abbiamo cominciato a pensare che la gara non si fosse giocata e fossimo testimoni di un complesso sistema informatico, ovvero che i calciatori e l’arbitro fossero solo attori messi davanti alle telecamere per intrattenere noi spettatori passivi a casa. Forse il gigantesco centravanti del Bayern Lewandowski è un personaggio della mitologia, Ronaldo un supereroe dei fumetti e Lionel Messi l’invenzione di un videogioco. Fantasia delirante, ma poi ci siamo ricordati di un racconto degli anni 60 scritto da Jorge Luis Borges con l’amico Adolfo Bioy Casares, dal titolo Esse est percipi. “Come, crede lei dunque nella tifoseria e negli idoli? Dove è vissuto, don Domecq? Non c’è risultato, né formazioni, né partita. Gli stadi sono ormai rovine che cadono a pezzi. Oggi tutto passa per la televisione e la radio. La falsa eccitazione degli annunciatori? Non è mai arrivato a pensare che è tutta un’impostura? L’ultima partita di calcio si è giocata in questa capitale il 24 giugno del 37. Da quel preciso momento, il calcio, come la vasta gamma di altri sport, è un genere drammatico, con un solo uomo in cabina di regia e attori in maglietta davanti al cameraman. Signore, chi inventò la cosa, mi misi a domandare. Nessuno lo sa. Tanto varrebbe scoprire chi inventò per primo le inaugurazioni delle scuole o le visite fastose delle teste coronate. Sono cose che non esistono fuori dagli studi di registrazione e delle redazioni. Si convinca, Domecq, la pubblicità massiva è il contrassegno dei tempi moderni. E la conquista dello spazio, gemetti? È un programma straniero, una coproduzione yankee-sovietica. Un lodevole progresso, non neghiamolo, dello spettacolo scientista”. Virtuale e reale si intrecciano, verità e finzione sfumano; resta la vittima, il destinatario-utilizzatore finale a pagamento dello spettacolo. Il titolo del racconto, Esse est percipi, fa riferimento alla frase che riassume il pensiero filosofico di George Berkeley, vescovo anglicano irlandese del XVIII secolo. Essere è essere percepiti, ovvero ciò che chiamiamo realtà dipende dalla percezione del soggetto. Non esiste dunque una realtà obiettiva, come per Tommaso (“una mela è una mela “), tutto dipende da chi osserva. Al limite, non solo la partita può essere una finzione, cioè una fiction, ma possiamo esserlo anche noi stessi; forse esistono solo i giocatori di calcio mentre sono finzione le pandemie, i governi, i conflitti. Borges sembra suggerire che siamo noi tifosi con la nostra carica soggettiva a sostenere, rendere viva la fiction dello sport. È la nostra percezione che dà carne alla fantasia remota creata negli studi, alimentata dalla voce eccitata dei telecronisti.  Ovviamente, il pensiero di Berkeley è più complesso, ma Borges disegna un mondo nel quale la realtà si comporta in base al modello berkeleyano. Per non cadere nel relativismo più estremo, il che lo avrebbe reso un’icona della postmodernità, Berkeley, ecclesiastico e credente, indica Dio come garante ultimo della stabilità del mondo. L’interesse di Berkeley era indagare su come conosciamo il mondo e quali sono gli strumenti per distinguere la realtà dalla finzione. È una problematica già insita nella famosa caverna di Platone, che giunge sino a noi, poiché la nostra relazione con l’alterità è sempre mediata da schermi. Quindi, esiste davvero Lewandowski, tornerà veramente il campionato? I tifosi del Bayern sono veri o di cartone? Il Real Madrid è una squadra reale o una creazione artificiale inventata per umiliare gli avversari? Forse che la Juventus finisca sempre per vincere è un errore di Matrix, o un aiutino del Grande Algoritmo. Non ci sono risposte, ma ci si convince ogni giorno di più di vivere in una bolla, essere noi stessi una fiction distopica, in cui sono l’umanità e la verità le grandi sconfitte. La televisione è riuscita in un’impresa colossale: togliere pubblico e carne agli eventi, convincere che solo ciò che avviene davanti alle telecamere accade davvero, in quanto “è percepito”, il battito delle palpebre di Dio di Berkeley. Urla finte più reali di quelle autentiche, “vero“ pubblico di cartone, una vita a porte chiuse, a distanza di sicurezza. Solo spettatori paganti, utenti, mai protagonisti. Forse è davvero tutto falso, specialmente il risultato, predeterminato da un algoritmo in cui l’elemento principale è la quantità di denaro investito, seguito dal bacino d’utenza e dal numero di “mi piace” sulle reti sociali. Ecco la vera democrazia da remoto, circenses a tariffa con macchina da presa. Diceva Polonio del comportamento di Amleto: c’è del metodo in questa follia. 

 

Roberto Pecchioli

 

Commenti
NuovoCerca
Solo gli utenti registrati possono inviare commenti!
 
< Prec.   Pros. >