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Il linguaggio del potere PDF Stampa E-mail

1 Luglio 2020

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 Volendo ricercare verso le radici del Potere - l'esperienza del quale stiamo facendo in maniera sempre più forte ed evidente - una delle tappe fondamentali è certamente il linguaggio. La questione del linguaggio come strumento di potere si ritrova in diversi aspetti particolari, specifici, di una lingua e dell'uso che ne viene fatto, così come in certi suoi aspetti di fondo. Nei termini più generali, una certa lingua con la propria effettiva articolazione può determinare o perlomeno indurre un certo modo di pensare. In una lingua possono esserci certe parole rappresentanti certe categorie concettuali, o possono essercene altre; con ciò si realizza una considerazione differente della realtà. Una cultura dominante è in grado di produrre, diffondere, stabilizzare certe parole (categorie concettuali) piuttosto che altre, rendendo più facile o più difficile una critica allo stato delle cose. Un aspetto più specifico di uso strumentale del linguaggio possiamo ritrovarlo in una situazione linguistica che sta avanzando in maniera sempre più netta: l'uso dell'inglese dentro la lingua italiana. L'uso di termini in un'altra lingua - e in particolare della lingua che si propone come quella della "civiltà" per eccellenza - garantisce un impatto emotivo favorevole sui più; un impatto emotivo che viene a sostituire una comprensione effettiva. Anche conoscendo il significato letterale dei termini stranieri la condizione psicologica che si produce è diversa. Sentir dire "spending review" dà comunque un effetto molto diverso che sentir dire "tagli alle spese". Ma nell'invasione della lingua inglese dentro l'italiana c'è anche qualcosa che può andare molto più a fondo. L'introduzione di termini inglesi - magari inizialmente relativi a contesti specialistici, ma che poi diventano concetti di uso più generale - realizza un impoverimento della lingua invasa. Poche parole con significati che restano piuttosto vaghi si sostituiscono ad una gamma di parole con significati precisi, ben attestati nella cultura, adeguati a costruire un pensiero che consideri in maniera approfondita la realtà. Queste valutazioni non significano, naturalmente, negazione di un valore che la lingua inglese abbia di per sé. In lingua inglese ci sono state delle produzioni culturali e poetiche di livello eccelso.

Anche restando, ad ogni modo, dentro il linguaggio naturale e proprio di una cultura, operazioni linguistiche oppressive sono senz'altro possibili. Un esempio lo si è avuto di recente in relazione al virus Covid-19 e al cosiddetto "lockdown" (termine inglese, ovviamente). Volendo dare l'indicazione - e in effetti l'ordine - di non uscire di casa, viene diffusa mediaticamente la frase "Io resto a casa". In una situazione di questo genere non si dice cioè "È meglio se resti a casa" e nemmeno si usa la forma imperativa "Resta a casa" ma si dice "Io resto a casa". La comunicazione non viene attuata - diciamo così - dall'esterno ma dall'interno. Ci si sostituisce al soggetto e si pronunciano le sue proprie parole. Veniamo costretti ad affermare noi stessi quelle indicazioni che ci vengono date. Si tratta peraltro di un fenomeno linguistico di tipo generale, che è in un certo modo sempre stato presente nella letteratura narrativa. Nella narrativa cosiddetta "alla prima persona" chi espone le vicende e descrive è un "io narrante". Il lettore quando legge dice "io" e quell'"io" è nell'immediatezza inevitabilmente lui stesso, il lettore. Lì sta l'ambiguità e il fascino di quel tipo di letteratura. Nel racconto "La metamorfosi" di Franz Kafka a dire "io" è uno scarafaggio - un uomo diventato scarafaggio. Il lettore dice "io" e si immedesima in uno scarafaggio ex-uomo. Però in questo tipo di letteratura, che a dire "io" sia lo scarafaggio di Kafka o Henry Miller stesso in "Tropico del Cancro", il lettore sa che nel testo c'è quel certo io-narrante, lo "conosce", perciò l'assunzione sopra di sé di quel discorso è conturbante ma momentanea. Della frase propagandistica il lettore non ha invece un determinato io-narrante come riferimento, e quando dice "io" leggendo, quell'"io" tende a restare proprio lui stesso. Qui non si tratta più di modi dell'arte letteraria, ma di segnali di violenza e di tendenza al controllo totale. Durante la seconda guerra mondiale il regime fascista, per evitare che la popolazione parlando potesse fornire involontariamente informazioni a spie nemiche, coniò l'espressione piuttosto famosa "Taci! Il nemico ti ascolta!" Usò cioè la forma dell'imperativo. Questo perché la violenza nel Fascismo non era ancora al livello di quella odierna. Al grado di violenza linguistica del presente lo slogan non sarebbe stato "Taci! Il nemico ti ascolta!" ma "Io taccio perché il nemico mi ascolta"...

Enrico Caprara

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