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Una vittoria che non vale nulla PDF Stampa E-mail

14 Luglio 2021

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 In un editoriale sull' AGI (Agenzia Giornalistica Italiana) dai toni un poco troppo euforici, Mario Sechi ha analizzato la vittoria degli "Azzurri" a Euro2020. In sintesi il discorso è questo: se come diceva Aristotele tutto è politica, anche lo sport va considerato tale e idem la vittoria a Wembley: è il riscatto e la ripresa di un Paese intero, con la "creazione fantasiosa" di un allenatore che ha plasmato un collettivo. Vi risparmio i soliti luoghi comuni e retorica, conclusasi con un qualcosa del tipo: stiamo tornando, siamo in ripresa, il peggio è passato, Londra è stata uno spartiacque.

Mi dispiace contraddire l'ottimo Sechi, ma ancora esiste (ad oggi, domani non si sa) il diritto d'una replica diversa e qui non si è d'accordo in nulla, a partire dal fatto che lo sport non è politica ma viene strumentalizzato dalla politica a scopi di narrazione del discorso od uso interno ed internazionale, ma il discorso di fondo non sarebbe neppure questo. Fare un paragone tra i due 11 luglio, quello del 1982 e quello del 2021, non ha senso alcuno, è fuorviante e disonesto. Certo, una cosa hanno in comune l'Italia del 1982 con quella del 2021: entrambi i Paesi venivano od uscivano da una emergenza, che all'epoca fu di eversione e violenza politica, ancora a dicembre '81 le BR rapirono il generale Dozier della NATO, comandante del settore Mediterraneo (non di certo un maresciallo di Vattelapesca qualsiasi) e nonostante i terroristi fossero in ritirata il pericolo era ancora percepibile, palpabile, concreto. A tutto ciò si aggiungeva l'offensiva in Sicilia di una mafia senza freni, il carovita, l’inflazione. Per quanto non fosse facile quel 1982 l'evento sportivo del "Mundial" trascese veramente il suo significato, permeandosi nell' immaginario, nel collettivo, e condiviso da una società. L'urlo di Tardelli, l’esultanza di Pertini, la coppa consegnata da Juan Carlos ebbero veramente un effetto catartico di liberazione di un presente cupo e ingombrante, dando la forza morale di ricostruire quello che il sociologo Galimberti chiama "il futuro dell'ottimismo". Pur dibattendosi in mille mali e difficoltà, l’Italia del 1982 era ancora -sostanzialmente, seppur da poco minato dai germi del male- un organismo ancora sano e fiducioso nel proprio destino. L'orizzonte di tutti, in quell'82 andava oltre un torneo di pallone e lo stesso Pertini, a fine anno nel suo discorso alla nazione rammentò come "delle migliaia di giovani che ricevo al Quirinale, nessuno di essi mi porge domande sciocche (...) ma molto competenti (...) vogliono delucidazioni sul loro futuro, sui loro studi, sul mondo che verrà". I festeggiamenti che sorsero in quella lontana notte di luglio da Trieste a Lampedusa furono autentica e genuina esultanza di popolo, di popolo inteso in senso nobile, nel senso lato del termine, ossia di quello che Vittorio Possenti docente della Università di Venezia chiama "molte persone che in una società di comuni beni e valori, in una "koinomia politikè composta anche di tradizioni e speranze collettive, cerca di realizzare nella misura storicamente possibile la buona vita". Era una società, una comunità, che di fronte al terrorismo, ai disordini del 1977, alle infiltrazioni eversive nelle fabbriche, aveva respinto in blocco al mittente le sirene tentatrici, dove corpi intermedi di una modernità ancora solida quali partiti e sindacati avevano fatto barriera. Un Paese che per risolvere i suoi guai (e se il '77, i NAP, le BR, Bologna, i NAR ecc. seppur realisticamente destinati alla sconfitta non fossero guai, fate voi) non ebbe bisogno di DPCM illegittimi o stati di emergenza continui e reiterati. A parte qualche polemica sulla Legge Reale, l'eversione fu combattuta senza ledere i diritti fondamentali del cittadino.

E come è invece l’Italia del 2021?  Un Paese allo sbando totale che ha barattato la libertà per una falsa sicurezza, obbedendo pedissequamente alle imposizioni più folli, senza neppure accorgersi che da 17 mesi a questa parte -caso strano- tutte le volte che vi è di mezzo il calcio, nasce una grande zona franca anti-Covid: tutte le varianti scompaiono, diventa lecito "assembrarsi" (a Natale e Pasqua no, per gli "Azzurri" sì, come per l' Inter a Milano a inizio maggio, per Maradona a Napoli con coprifuochi saltati, eccetera): insomma, se l' assembramento è innocuo non ci si contagia, se ci si unisce per chiedere i "ristori" e le aperture ecco le guardie in assetto antisommossa. Quali domande poi facciano e si facciano i giovani, ansiosi solo di avere un Green Pass per sballarsi in Grecia o Spagna, non lo so e a questo punto, nel nichilismo imperante, poco importa. Sono tutti mali del mondo postmoderno ed occidentale in particolare, quindi anche dell’Inghilterra e purtuttavia l'Inghilterra, perdendo, ha vinto lo stesso. La Coppa Europea non crea posti di lavoro o collocazioni geostrategiche e politiche o altro, è un pezzo di metallo che resta in bacheca e potrebbe vincerlo pure uno Stato non eccelso come la Repubblica Centroafricana che anche facendo incetta piena di medaglie resterebbe sempre la Repubblica Centroafricana, purtroppo uno degli Stati tra gli "ultimi e dimenticati" del mondo. L'Inghilterra ha vinto qualcosa che va oltre un ammasso di ferraglia: mostrando urbi et orbi Wembley pieno, stracolmo, ha fatto vedere a tutti come sia possibile coniugare vita normale e virus, senza isterie o fantasmi interiori da ipocondriaci. L'Inghilterra ha vinto perché sta superando le tempeste di una "Brexit" pesante senza essere affondata, ma anzi in piedi come prima e più di prima: è una nazione che almeno ha un progetto per il domani, che sa andare oltre il muro dietro la mera emergenza per provare a riappropriarsi del "futuro dell'ottimismo”, poi con che contenuti è altro paio di maniche, che non c' entra con questo articolo.

Noi siamo ancora qui, senza uno straccio di programma per il futuro che non vada oltre un "Piano nazionale di ripresa e resilienza" di cui, sinceramente, non si è mai capito un cazzo e che è sottoposto, per la sua realizzazione, a ben 528 condizioni dettate dalla UE. Lo dicono "La Stampa" e "La Repubblica”, non i terrapiattisti.

Siamo ancora alla conta dei bollettini di 7 o 13 morti al giorno (su una media di 1690 morti in Italia al giorno, ossia nessuno) con le terapie intensive vuote quando altri Paesi, come Singapore, le hanno già cancellate da tempo, agendo su altri indici e basi periodiche. Siamo ancora alle regioni colorate con la plastilina, che senz'altro nella "ripresa " di cui vaneggiano Draghi e Franco (rimbalzo tecnico, non ripresa, si dovrebbe dire) sono proprio un bell' incentivo per investimenti e imprenditori. Siamo un popolo prigioniero delle proprie paranoie, fantasmi e deliri. Quella che era in strada a festeggiare non era comunità. Non era società. Era plebe, semplicemente plebe, i cui balocchi andrebbero guardati con una certa sana puzza aristocratica. E si smetta infine di rubricare il calcio a fenomeno "nazionalpopolare": forse lo era ancora nel 1982, oggi non più. Oggi è sport di mercenari consustanziali al discorso narrativo del Potere. Oggi è solo oppio dei popoli e ha lo stesso effetto deleterio della televisione sulle menti: le ottenebra e le annebbia, è rimasta una cosa da viziosi e bisogna avere il coraggio di liberarsi di questo pseudosport e di incitare gli altri a farlo. Il calcio e i Ribelli non vanno d’accordo, come concetti, e prima lo si capisce, meglio è. È stata una vittoria che non vale nulla e ad autunno, tra nuovi lockdown e licenziamenti, se la saranno quasi tutti dimenticata.

Simone Torresani

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