Avviso Registrazioni

Scusandoci per l'inconveniente, informiamo i nuovi utenti i quali desiderino commentare gli articoli che la registrazione deve essere fatta tramite Indirizzo e-mail protetto dal bots spam , deve abilitare Javascript per vederlo

Login Form






Password dimenticata?
Nessun account? Registrati

Cerca


 
  SiteGround web hostingCredits
L'Europa vittima di sé stessa PDF Stampa E-mail

13 Febbraio 2022

 Da Rassegna di Arianna del 12-2-2022 (N.d.d.)

Alla pandemia sanitaria si sta sostituendo la pandemia economica, con ricadute sociali devastanti. I facili entusiasmi per la ripresa post pandemica sembrano di colpo scomparsi. Il caro - energia e l’inflazione avranno un duro impatto su di un tessuto economico – sociale già devastato non solo dalla fase pandemica, ma soprattutto da una ultradecennale compressione salariale, dovuta alle politiche di austerity europee. Il calo della produzione dello 0,7% registrato in dicembre sale all’1,3% in gennaio. La crescita realizzatasi nel 2021 subirà nel 2022 una rilevante contrazione a causa del caro - energia: l’elettricità è rincarata del 450% rispetto al 2021. L’aumento dei costi di produzione ha determinato una estrema compressione dei margini, rendendo per molte imprese più conveniente non produrre. Il caro – bollette per le imprese inciderà nel 2022 per 37 miliardi (i costi dell’energia ammontavano nel 2021 a 8 miliardi), e per i consumi dei cittadini per circa 50 miliardi. Si ipotizza che l’aumento dei costi energetici determinerà un decremento del Pil per il primo trimestre 2022 dell’1,1%. Il rincaro energetico colpisce maggiormente le imprese energivore, cioè quelle operanti nei settori della siderurgia, della chimica, della ceramica, della carta che sono spesso costrette a rallentare la produzione se non a sospenderla. Ma finirà per trasmettersi all’intera industria manifatturiera.

Il caro – energia è inoltre un fattore determinante nella crescita della spirale inflazionistica, che, oltre ad incrementare a dismisura i costi di produzione, erode la domanda ed i risparmi dei cittadini. L’inflazione avrà certamente un impatto negativo sui fondi per gli investimenti previsti dal Pnrr. Il ministro Cingolani ha affermato di recente che “Il caro – energia costerà in un anno più di tutto il Recovery Plan”. È tornato a salire anche lo spread, che si è attestato pochi giorni fa a 165 punti. Si invocano misure governative a sostegno della produzione e dei consumi e soprattutto di una popolazione che già annoverava nel 2020 5,6 milioni di individui sotto la soglia di povertà. Il governo Draghi non intende effettuare nuovi scostamenti di bilancio e ha predisposto una serie di misure per imprese e cittadini per 5 miliardi. Tali provvedimenti sono del tutto insufficienti per fronteggiare la crisi. Secondo Confindustria il loro impatto sarebbe appena dello 0,8%. La stessa Confindustria propone un abbattimento pari al 95% dell’imposta nazionale e regionale sul consumo del gas naturale. In realtà, occorrerebbe varare misure per almeno 14 miliardi con il ripristino del regime dei prezzi amministrati con cui fu affrontata la crisi energetica degli anni ’70 e procedere, data la situazione di emergenza, agli scostamenti di bilancio necessari, onde salvaguardare la produzione industriale in Italia. La contrarietà agli scostamenti di bilancio del governo Draghi è facilmente comprensibile. In attuazione delle riforme previste dal Pnrr, quale condizione posta per l’accesso ai fondi europei, il governo Draghi si apprestava a mettere in atto un vasto programma di spending review, anche in vista del ripristino nella UE delle regole del patto di stabilità nel 2023. Realizzare manovre di riduzione di spesa pubblica in fasi di crisi emergenziale come quella attuale sarebbe devastante per l’economia, come lo fu l’austerity del governo Monti. È del tutto evidente che il governo Draghi è la reincarnazione del governo tecnico di Monti. Qualora non si desse luogo ad un rilevante sostegno pubblico per imprese e cittadini per sostenere il caro – energia, si verificherebbe un crollo verticale e strutturale della produzione industriale, con la chiusura di migliaia di imprese. L’attuale crisi non penalizza l’attività industriale solo nel settore dell’energia: si registrano infatti nel ciclo produttivo carenze di materiali, scarsità di manodopera, rilevanti incrementi dei costi all’esportazione e il dilatarsi dei tempi di consegna. L’attività industriale subisce inoltre gravi rallentamenti a causa delle interruzioni delle catene di approvvigionamento. In mancanza di adeguati sostegni pubblici, si verificherebbero delocalizzazioni industriali in massa verso paesi che praticano il dumping produttivo e salariale. Con il ristagno della produzione le imprese sarebbero inoltre indotte all’acquisto di materiali all’estero, con la distruzione progressiva delle filiere dell’indotto italiane. Di inaudita gravità sarebbero poi le ricadute della crisi sull’occupazione. Infatti, riguardo alla spesa pubblica, per effetto di una crisi di questa portata, quali costi spaventosi comporterebbero per le finanze pubbliche l’espandersi dalle cassa integrazione e l’erogazione di sostegni alla povertà per milioni di disoccupati vecchi e nuovi, senza peraltro alcuna prospettiva futura di occupazione?

Si rileva in Italia la mancanza di una politica energetica da decenni. Gli imputati di tutte le nostre disgrazie energetiche, secondo i media, sarebbero i no – tav, i no – tap, i no – pale eoliche, i no – trivellazioni, gli ambientalisti no – tutto. Al di là della facile demagogia elargita a piene mani da tanti (specie il M5S), si rileva che la produzione nazionale di energia incide attualmente per il 4% dei consumi interni. Si potrebbe raddoppiare, ma sarebbe comunque poco rilevante. Si invoca anche il ritorno al nucleare, ma l’impianto di centrali sicure, quelle della quarta generazione, richiederebbe una tempistica di almeno 20 anni. Occorre tuttavia mettere in risalto che l’energia eolica in Italia rappresenta il 9% della produzione nazionale. Un risultato eccellente, anche rispetto agli altri partner europei.

L’aumento dei prezzi energetici ha invece cause diverse. Con la ripresa post – pandemica, la Cina ha assorbito larga parte della domanda energetica mondiale e la Russia, a causa della crisi ucraina, ha rallentato la produzione. Ma è sotto accusa soprattutto la politica energetica europea. Essa, avendo concentrato i propri programmi sulle energie rinnovabili (Green Deal), ha destinato gli investimenti esclusivamente a tali progetti, determinando nel contempo un totale disincentivo alle attività estrattive e di stoccaggio delle imprese del settore. A tali cause è specularmente imputabile la crisi del settore dell’automotive: gli investimenti finanziari si sono concentrati sull’avvento dell’auto elettrica, determinando nel contempo carenze di produzione nella componentistica, con l’effetto di far precipitare la produzione dell’auto ai livelli degli anni ’70. L’imposizione su scala mondiale del sistema toyotista, quello della produzione just in time, ha generato nella attuale crisi la carenza globale di scorte, cui fa riscontro la scarsità di riserve nel settore energetico. Aggiungasi poi che allo stato attuale la produzione di energie rinnovabili è del tutto inadeguata al fabbisogno mondiale. Tale situazione viene analizzata con estrema lucidità da Giulio Sapelli: «È anche un colossale fallimento manageriale: i responsabili degli acquisti delle società energetiche europee, avrebbero dovuto capire che centinaia di navi alla rada (cariche di idrocarburi) avrebbero creato colli di bottiglia. Avrebbero dovuto comprendere che il just in time non funzionava più e che bisognava fare scorte. È anche vero che lo strabismo della Borsa premia il green, che le stock option vengono assegnate a chi fa operazioni verdi: si assiste ad una discrasia sempre più profonda tra la finanza e la realtà. E ora ci troviamo senza riserve». Sono infatti i meccanismi dell’economia finanziaria che si sono sovrapposti alle logiche dell’economia reale ad aver generato questa crisi. Tali analisi appaiono oltremodo convincenti, qualora si prendano in considerazione i meccanismi di formazione del prezzo del gas. Fino al 2013 i prezzi del gas in Europa erano basati su contratti a lungo termine. I prezzi erano quindi stabili. Oggi, il prezzo del gas è determinato dalle quotazioni di una borsa olandese, il Title Tranfer Facility (TTF), e da altre minori. Pertanto, poiché nella fase pandemica le quotazioni erano ai minimi, i prezzi erano assai convenienti. Con l’impennata della domanda globale nella fase post – covid, invece le quotazioni hanno registrato incrementi vorticosi con relativa risalita dei prezzi energetici. Questa crisi rappresenta l’ennesima tragedia provocata dalla liberalizzazione dei mercati, innalzata a dogma indiscutibile dal sistema economico neoliberista. Il caro – energia è diretta conseguenza di una impostazione finanziaria dell’economia, in cui la speculazione genera immensi profitti per i grandi investitori a danno dell’economia reale, cioè degli stati e dei popoli. Fattori geopolitici e speculazioni finanziarie si intrecciano nella crisi provocando squilibri economici e conflittualità crescenti. In Europa la Nato, volta ad eliminare la dipendenza energetica europea nei confronti della Russia, ha programmato l’impianto di una serie di rigassificatori per rifornire il Vecchio Continente con gas di scisto americano. Nel corso della attuale crisi però, le navi metaniere americane si sono dirette verso i mercati asiatici che offrivano prezzi più elevati, piuttosto che rifornire gli impianti europei. Il libero mercato quindi può solo generare volatilità dei prezzi ed instabilità permanente nei rifornimenti.

In Italia si è registrato l’aumento dell’importazione del gas algerino ed il vistoso calo delle forniture libiche (43%), a causa delle note conflittualità interne alla Libia. È diminuita anche l’importazione dalla Russia, oggi accusata dall’Occidente di praticare una politica di ricatto energetico verso l’Europa, in cui il gasdotto Nord Stream 2 non è entrato ancora in funzione per decisione del nuovo governo tedesco, che tuttavia subisce forti pressioni politiche da parte degli Stati Uniti. Nessuno in Occidente però rivolge accuse alla Norvegia (paese atlantista di ferro), che ha ridotto le sue forniture dell’80%, o alla Germania che ha rivenduto il gas russo a Polonia e Ucraina al triplo del prezzo di acquisto. Occorre infine rilevare che mentre in Europa i prezzi del gas sono ancorati alla volatilità delle quotazioni finanziarie, i contratti con la Russia sono ancora a lungo termine e prevedono prezzi stabili. Vengono peraltro rispettate le condizioni di fornitura pattuite.

Questa crisi ci offre l’ennesima conferma che l’Europa è vittima di se stessa, della propria dipendenza dagli USA e dalla Nato e non dalla Russia. L’Europa è alla canna del gas, perché prigioniera di un sistema economico e politico che può solo condurla alla sua dissoluzione.

Luigi Tedeschi  

Commenti
NuovoCerca
Solo gli utenti registrati possono inviare commenti!
 
< Prec.   Pros. >