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Il Papalagi, stupido infelice uomo bianco PDF Stampa E-mail
7 aprile 2009
 
 
Agli inizi del 900 Tuiavii, capo indigeno delle isole Samoa, compì un viaggio in Europa per verificare coi suoi stessi occhi gli usi e costumi dei “Papalagi”, gli uomini bianchi. L’impressione che ricevette non fu delle migliori, e anzi al suo ritorno mise in guardia il suo popolo dal fascino perverso dell’Occidente.
Eric Scheuurmann, artista tedesco amico di Hermann Hesse, fuggito nei mari del Sud per evitare la seconda guerra mondiale, raccolse i discorsi del capo indigeno, li tradusse e diffuse in Europa contro la stessa volontà di Tuiavii. L’isolano primitivo (secondo i canoni occidentali) considera un errore, un vicolo cieco tutte le conquiste dell’Europa moderna: “Credete di portarci la luce, e in realtà vorreste trascinarci nella vostra oscurità.” L’analisi “sociologica” di Tuiavii non lascia scampo all’uomo occidentale in nessuna delle sue espressioni: dalla tecnologia, al lavoro, al denaro, al maltrattamento dell’ambiente, alla religione, alla morale sessuale, persino alla filosofia, al cinema e all’abbigliamento, tutto è demolito e demistificato dalla saggezza di un uomo vicino al “Grande Spirito”. Ecco ad esempio come appare il lavoro, da noi moderni tanto mistificato, a un uomo come Tuiavii.
Ogni Papalagi ha un lavoro. È difficile spiegare cosa sia. È un qualcosa che si dovrebbe avere una gran voglia di fare, ma il più delle volte non se ne ha. Avere un lavoro significa: fare sempre la stessa identica cosa.[…] Il Papalagi di ogni attività fa un lavoro. Se uno raccoglie le foglie appassite dall'albero del pane fa un lavoro. Se uno pulisce le stoviglie fa un altro lavoro. Tutto è lavoro se si fa qualcosa. Con le mani o con la testa. Anche pensare o guardare le stelle sono lavori. Non c’è niente che possa fare un uomo che il Papalagi non possa trasformare in lavoro. Se un bianco dice: sono uno che scrive lettere, significa che questo è il suo lavoro, e cioè non fa altro che scrivere una lettera dopo l’altra. […] Mangia pesci, ma non va a pescare, mangia frutta, ma non raccoglie mai un frutto. Scrive una lettera dietro l’altra perché questo è un lavoro. […] E così va a finire che la maggior parte dei Papalagi sanno fare solo quello che è il loro lavoro. […] Il Grande Spirito ci ha dato le mani perché possiamo raccogliere frutti, prendere radici, ce le ha date per proteggere il nostro corpo dai nemici, e per la nostra gioia nella danza, nel gioco e in tutti gli altri divertimenti. Sicuramente non ce le ha date solo per costruire capanne, raccogliere frutti o strappare radici. Questo però il Papalagi non lo comprende. Ma che il suo agire è sbagliato, completamente sbagliato e contro il Grande Spirito, lo vediamo dal fatto che ci sono Bianchi che non riescono più a correre, che mettono molto grasso sulla pancia come i maiali, perché devono stare sempre fermi a causa del loro lavoro, che non riescono più a sollevare un giavellotto e lanciarlo . […] Anche il lavoro è un demone che distrugge la vita. Un demone che da all’uomo allettanti consigli, e che però gli beve il sangue dal corpo.[…]
Questa è la causa della grande infelicità del Papalagi. È bello prendere acqua al ruscello, anche più volte al giorno; ma chi deve farlo dall’alba al tramonto tutti i giorni e tutte le ore, finché gli bastano le forze, scaglierà via in un impeto d’ira il secchio, pieno di collera per le catene con le quali è tenuto il suo corpo. Perché niente è più pesante di dover fare sempre la stessa cosa. Per questo cova un odio profondo. Tutti quanto hanno nel cuore qualcosa che somiglia a un animale tenuto in catene, che si ribella ma non riesce a liberarsi. […] Questo porta a confusione, disperazione o malattia. Se il Papalagi mi sentisse dire tutte queste cose, direbbe che sono io folle, ma il Papalagi non ci ha detto la verità, e non ci ha spiegato il motivo per cui dovremmo lavorare di più di quanto voglia Dio per saziarci, per avere un tetto e divertirci alle feste del villaggio.[…]
Il Papalagi quando parla del suo lavoro sospira come se un peso lo schiacciasse. I giovani delle Samoa si recano cantando nei campi di taro, e cantando le vergini lavano i panni alla fonte zampillante . Il Grande Spirito vuole che rimaniamo fieri e giusti in ogni cosa che facciamo, e sempre uomini con occhi gioiosi e membra sciolte.


Alberto Cossu
Commenti
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Francesca Geloni (Registered) 07-04-2009 22:14

"Il Papalagi quando parla del suo lavoro sospira come se un peso lo schiacciasse. I giovani delle Samoa si recano cantando nei campi di taro, e cantando le vergini lavano i panni alla fonte zampillante . Il Grande Spirito vuole che rimaniamo fieri e giusti in ogni cosa che facciamo, e sempre uomini con occhi gioiosi e membra sciolte": è proprio questo il punto, questo il discrimine che rende l'uomo occidentale sia ladro che miserabile schiavo di se stesso. L'uomo occidentale ha perso la libertà sul proprio tempo, ha perso di vista il senso della vita ed è schiavo di un'economia consumistica che lo costringe ad un'esistenza a pagamento. E la cosa tragica è la volontà di esportare un sistema disumano come modello di sviluppo e di libertà. Che gran contraddizione...
fosco2007@alice.it
lucianofuschini (Registered) 07-04-2009 22:52

Bravissimo Alberto nella contrapposizione della profonda saggezza dei cosiddetti selvaggi alla nostra follia delirante. C'è però il rischio, non estraneo allo stesso Massimo Fini a cui tutti noi ci ispiriamo, di riproporre il mito del "buon selvaggio" che Rousseau rese popolare 250 anni fa. Si tratta di civiltà non antiche bensì primitive, da cui purtroppo oggi possiamo attingere ben poco. Oltre all'atteggiamento verso il lavoro così ben evocato da Alberto, sarebbe per noi una grandissima conquista di civiltà, la vera civiltà, riappropriarci di un rapporto sereno e naturale con la morte. Ma sono tutte cose che non si possono riproporre con un appello alla ragione: o scaturiscono da un sentire comune indotto da trasformazioni epocali che agiscono nel profondo, o restano il lamento sterile per un Eden perduto. Comunque ringrazio Alberto per questo bel monito.
Vincent (Registered) 07-04-2009 23:14

"...il Papalagi non ci ha detto la verità, e non ci ha spiegato il motivo per cui dovremmo lavorare di più di quanto voglia Dio per saziarci, per avere un tetto e divertirci alle feste del villaggio..."

Ebbene questa è la mia filosofia di vita, cioè una non-filosofia.. semplicemente vita. Saluti
sercabras@gmail.com
Sergio (Registered) 08-04-2009 02:20

Prima che fosse colonizzato il resto del mondo, il primo mondo che fu colonizzato all'inizio della Modernità è stato quello contadino qui in Occidente, ed è da lì che bisognerebbe ripartire se si vogliono creare basi radicalmente diverse.
In una vita contadina, lavorare non ha lo stesso significato che in una vita da operaio, impiegato, stipendiato, professionista ecc.. , non lo stesso che in una vita cittadina. In queste ultime c'è il tempo del lavoro, che fondamentalmente è lo scambio di tempo, di porzioni quotidiane della propria vita, ed energia, contro soldi. Poi il tempo del lavoro finisce e si è liberi: c'è la vita propria in cui si fa quello che si vuole - e possibilmente ci si vorrebbe divertire o rilassare.
Il %u201Ctempo libero%u201D.

Nella dimensione contadina la dicotomia %u201Clavoro%u201D e %u201Ctempo libero%u201D non c'è.
Lo esprime perfettamente Jean Giono nella sua %u201CLettera ai contadini sulla povertà e la pace%u201D:

%u201CQuando parlate con un uomo socialmente tecnico, egli sogna solo tempi in cui le macchine faranno tutto il lavoro e l'uomo lavorerà soltanto qualche minuto al giorno per spingere pulsanti di macchinari o alzare e abbassare commutatori.
E cosa farà per il resto del tempo? Gli chiediamo noi.
Ed egli ci risponde: %u201CSi coltiverà%u201D
Questo pover'uomo ha dimenticato, non sa, non può sapere, nella sua posizione antinaturale, che la vera cultura dell'uomo è precisamente il suo lavoro, ma un lavoro che sia la sua vita, il che, evidentemente, non è il caso di alcun lavoro tecnico.
Non si può sapere qual è il vero lavoro del contadino: se è arare, seminare, falciare, oppur se è nello stesso tempo mangiare e bere alimenti freschi, fare figli e respirare liberamente, poichè tutte queste cose sono intimamente unite, e quando egli fa una cosa completa l'altra.
È tutto lavoro, e niente è lavoro nel senso sociale del termine.
È la sua vita.%u201D

www.ecofondamentalista.it
sercabras@gmail.com
Sergio (Registered) 08-04-2009 02:19

Prima che fosse colonizzato il resto del mondo, il primo mondo che fu colonizzato all'inizio della Modernità è stato quello contadino qui in Occidente, ed è da lì che bisognerebbe ripartire se si vogliono creare basi radicalmente diverse.
In una vita contadina, lavorare non ha lo stesso significato che in una vita da operaio, impiegato, stipendiato, professionista ecc.. , non lo stesso che in una vita cittadina. In queste ultime c'è il tempo del lavoro, che fondamentalmente è lo scambio di tempo, di porzioni quotidiane della propria vita, ed energia, contro soldi. Poi il tempo del lavoro finisce e si è liberi: c'è la vita propria in cui si fa quello che si vuole - e possibilmente ci si vorrebbe divertire o rilassare.
Il %u201Ctempo libero%u201D.

Nella dimensione contadina la dicotomia %u201Clavoro%u201D e %u201Ctempo libero%u201D non c'è.
Lo esprime perfettamente Jean Giono nella sua %u201CLettera ai contadini sulla povertà e la pace%u201D:

%u201CQuando parlate con un uomo socialmente tecnico, egli sogna solo tempi in cui le macchine faranno tutto il lavoro e l'uomo lavorerà soltanto qualche minuto al giorno per spingere pulsanti di macchinari o alzare e abbassare commutatori.
E cosa farà per il resto del tempo? Gli chiediamo noi.
Ed egli ci risponde: %u201CSi coltiverà%u201D
Questo pover'uomo ha dimenticato, non sa, non può sapere, nella sua posizione antinaturale, che la vera cultura dell'uomo è precisamente il suo lavoro, ma un lavoro che sia la sua vita, il che, evidentemente, non è il caso di alcun lavoro tecnico.
Non si può sapere qual è il vero lavoro del contadino: se è arare, seminare, falciare, oppur se è nello stesso tempo mangiare e bere alimenti freschi, fare figli e respirare liberamente, poichè tutte queste cose sono intimamente unite, e quando egli fa una cosa completa l'altra.
È tutto lavoro, e niente è lavoro nel senso sociale del termine.
È la sua vita.%u201D

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Sergio (Registered) 08-04-2009 02:20

Prima che fosse colonizzato il resto del mondo, il primo mondo che fu colonizzato all'inizio della Modernità è stato quello contadino qui in Occidente, ed è da lì che bisognerebbe ripartire se si vogliono creare basi radicalmente diverse.
In una vita contadina, lavorare non ha lo stesso significato che in una vita da operaio, impiegato, stipendiato, professionista ecc.. , non lo stesso che in una vita cittadina. In queste ultime c'è il tempo del lavoro, che fondamentalmente è lo scambio di tempo, di porzioni quotidiane della propria vita, ed energia, contro soldi. Poi il tempo del lavoro finisce e si è liberi: c'è la vita propria in cui si fa quello che si vuole - e possibilmente ci si vorrebbe divertire o rilassare.
Il %u201Ctempo libero%u201D.

Nella dimensione contadina la dicotomia %u201Clavoro%u201D e %u201Ctempo libero%u201D non c'è.
Lo esprime perfettamente Jean Giono nella sua %u201CLettera ai contadini sulla povertà e la pace%u201D:

%u201CQuando parlate con un uomo socialmente tecnico, egli sogna solo tempi in cui le macchine faranno tutto il lavoro e l'uomo lavorerà soltanto qualche minuto al giorno per spingere pulsanti di macchinari o alzare e abbassare commutatori.
E cosa farà per il resto del tempo? Gli chiediamo noi.
Ed egli ci risponde: %u201CSi coltiverà%u201D
Questo pover'uomo ha dimenticato, non sa, non può sapere, nella sua posizione antinaturale, che la vera cultura dell'uomo è precisamente il suo lavoro, ma un lavoro che sia la sua vita, il che, evidentemente, non è il caso di alcun lavoro tecnico.
Non si può sapere qual è il vero lavoro del contadino: se è arare, seminare, falciare, oppur se è nello stesso tempo mangiare e bere alimenti freschi, fare figli e respirare liberamente, poichè tutte queste cose sono intimamente unite, e quando egli fa una cosa completa l'altra.
È tutto lavoro, e niente è lavoro nel senso sociale del termine.
È la sua vita.%u201D

www.ecofondamentalista.it
sercabras@gmail.com
Sergio (Registered) 08-04-2009 02:20

Prima che fosse colonizzato il resto del mondo, il primo mondo che fu colonizzato all'inizio della Modernità è stato quello contadino qui in Occidente, ed è da lì che bisognerebbe ripartire se si vogliono creare basi radicalmente diverse.
In una vita contadina, lavorare non ha lo stesso significato che in una vita da operaio, impiegato, stipendiato, professionista ecc.. , non lo stesso che in una vita cittadina. In queste ultime c'è il tempo del lavoro, che fondamentalmente è lo scambio di tempo, di porzioni quotidiane della propria vita, ed energia, contro soldi. Poi il tempo del lavoro finisce e si è liberi: c'è la vita propria in cui si fa quello che si vuole - e possibilmente ci si vorrebbe divertire o rilassare.
Il %u201Ctempo libero%u201D.

Nella dimensione contadina la dicotomia %u201Clavoro%u201D e %u201Ctempo libero%u201D non c'è.
Lo esprime perfettamente Jean Giono nella sua %u201CLettera ai contadini sulla povertà e la pace%u201D:

%u201CQuando parlate con un uomo socialmente tecnico, egli sogna solo tempi in cui le macchine faranno tutto il lavoro e l'uomo lavorerà soltanto qualche minuto al giorno per spingere pulsanti di macchinari o alzare e abbassare commutatori.
E cosa farà per il resto del tempo? Gli chiediamo noi.
Ed egli ci risponde: %u201CSi coltiverà%u201D
Questo pover'uomo ha dimenticato, non sa, non può sapere, nella sua posizione antinaturale, che la vera cultura dell'uomo è precisamente il suo lavoro, ma un lavoro che sia la sua vita, il che, evidentemente, non è il caso di alcun lavoro tecnico.
Non si può sapere qual è il vero lavoro del contadino: se è arare, seminare, falciare, oppur se è nello stesso tempo mangiare e bere alimenti freschi, fare figli e respirare liberamente, poichè tutte queste cose sono intimamente unite, e quando egli fa una cosa completa l'altra.
È tutto lavoro, e niente è lavoro nel senso sociale del termine.
È la sua vita.%u201D

www.ecofondamentalista.it
Sergio (Registered) 08-04-2009 02:36

....scusate, ho sbagliato qualcosa nello spedire il messaggio.
Comunque spero si capisca, tutti gli u201C e %u201D stanno per virgolette (" ").
Saluti
Dartagnan (Registered) 08-04-2009 09:15

Mi dispiace, ma non sono d'accordo con te, Marco De Marco. In tutte le epoche e in tutte le civiltà ci sono elementi che possiamo considerare positivi o negativi. Rousseau diceva che la natura dell'uomo è fondamentalmente buona, Hobbes che è fondamentalmente cattiva. Credo che l'uomo abbia in sè male e bene e che debba perseguire il bene. L'uomo occidentale è caduto in un abisso di male, occorre invertire la rotta, smettere di imporre il suo sistema di vita agli altri. La storia prosegue, senza progressività, con alti e bassi, con momenti in cui l'uomo sa dare il meglio di sè ed altri il peggio. Non possiamo augurarci un regresso tout court, come l'adulto non può tornare lattante. Occorre combattere gli aspetti della modernità che ci danneggiano, rifarsi a modelli del passato che riteniamo più umani e positivi, come intravede Sergio, richiamarsi a valori fondamentali come ci indica Massimiliano. Dobbiamo percorrere una strada antimoderna, anticapitalistica, antiglobalizzatrice.
www.arcadianet.blogspot.com
simone.org (Registered) 08-04-2009 11:27

Io concordo con questa filosofia.
Non sono un fanatico del ritorno alla vita primitiva in senso tecnico, quello che, dopo la Decrescita, può sopravvivere delle nostre teconologie e comunicazioni penso vada mantenuto.
Ma il tutto va piegato alla nostra esigenza di uomini, e non più di lavoratori.

Mi rendo conto spesso, in effetti, di non saper fare nulla nonostante gli anni di scuola e università: non so piantare un arbusto, coltivare un ortaggio, sistemare un muro.

E' quello che sto imparando a fare ora che ne ho la possibilità pratica e che sto approfondendo queste filosofie di vita e l'economia della Decrescita.
belew@hotmail.it
schizoidman (Registered) 08-04-2009 18:06

Voglio tranquillizzare Luciano e tutti sulla questione del "buon selvaggio". Il senso naturalmente del pezzo non è quello e durante la stesura ci ho pensato su: l'articolo poteva essere frainteso ma ho deciso di scriverlo lo stesso, sicuro che la maggior parte delle persone che seguono il blog l'avrebbe inteso correttamente. Infatti qua non si tratta di un mondo dell'Eden perduto nè di mitizzare una dimensione esotica, si tratta di individuare anche con l'aiuto di comparazioni con punti di vista esterni al nostro qual'è la misura di quello che abbiamo perduto, consapevoli però dell'irriducibilità di ogni cultura. Insomma secondo me è esistito e dovrà riesistere un modo europeo dell'essere "polinesiani".
max (Super Administrator) 08-04-2009 21:43

Ovviamente concordo con lo spirito dell'articolo.
Però attenzione: paradisi come quelli delle isole samoa costituiscono un'eccezione nella storia, per clima, dimensioni ecc.
A parte tali eccezioni, nella grande maggioranza delle terre, condizioni arcadiche non sono mai esistite. Forse, prima della scoperta dell'agricoltura, ma andiamo un po' troppo lontano.
E poi consideriamo che condizioni del genere, in ogni caso, avevano il loro prezzo da pagare: tutte le civiltà premoderne non hanno avuto l'attaccamento alla vita che abbiamo noi. In parole povere, si moriva molto più facilmente.
Di questo bisogna essere sempre consapevoli, perchè molti che criticano superficialmente i tempi moderni, secondo me lo dimenticano spesso. Per questo, per chi non ha una consapevolezza antimoderna sufficiente, tali raffronti sono pericolosi.
belew@hotmail.it
schizoidman (Registered) 09-04-2009 15:56

Concordo pienamente. Il senso dell'articolo riassumendo non è tanto "dobbiamo fare come loro!" quanto "avete visto come ci siamo ridotti?"
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