di Massimiliano Viviani
14 settembre 2009
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In questi giorni di apertura delle scuole, entreranno in vigore alcuni provvedimenti presi recentemente dal Ministro Gelmini in merito alla scuola dell'obbligo, al fine di rendere più competitivo il nostro sistema scolastico e adeguarlo agli ansiogeni standard tecnico-produttivistici impostici dalla competizione globale: per l'insegnamento nella scuola primaria non basterà più la laurea quadriennale ma ci vorrà quella quinquennale (!), per la scuola secondaria oltre alla laurea magistrale ci vorrà un anno di tirocinio, e dulcis in fundo non poteva mancare il solito richiamo a un incremento della presenza delle nuove tecnologie fra i banchi di scuola, e a un miglioramento dell'insegnamento dell'inglese. Cose già note, già sentite milioni di volte, ma che vanno in una unica direzione delineata da una fede (o sarebbe meglio dire "ossessione") incrollabile nel progresso quantitativo e produttivistico. Questioni che valgono -ancora di più amplificate- anche per l'Università, dove le uniche preoccupazioni sembrano oramai limitate all'entità dei finanziamenti, al numero di specializzazione dei corsi e alla competitività (!!) con le altre Università per la ricerca e gli agganci col meraviglioso mondo dell'impresa. Da una parte quindi c'è la tendenza nemmeno tanto nascosta a preparare l'alunno all'ingresso nel mercato del lavoro (la scuola oramai non serve ad altro) tramite una forsennata specializzazione delle materie di studio e l'introduzione di una mentalità di tipo "tecnicistico". In questa linea si inseriscono i richiami alle nuove tecnologie -cosa del resto inutile perchè i ragazzini non aspettano certo la scuola per imparare ad usare il computer, e mi pare che oggi se la cavino fin troppo bene anche da soli. Dall'altra c'è l'esigenza di regolare e normativizzare ogni forma di insegnamento: il richiamo sempre più insistente a metodi di insegnamento nuovi e più sofisticati va di pari passo con l'irrigidimento della scuola e l'attenersi scrupoloso a schemi e obiettivi prefissati, standard e impersonali. (Detto per inciso, per insegnare bene ai bimbi di 6 anni a leggere, scrivere e far di conto, siamo sicuri che sia proprio necessaria una laurea?!) Il legame sempre più stretto con il mercato del lavoro è probabilmente l'aspetto più irritante e dannoso della questione. Esso rende priva di senso pure la tanto sbandierata nozione di "merito": la corsa dei migliori, dei più bravi, dei maratoneti della memoria e dell'accumulo di nozioni, tra illusioni di successo e di emulazione dei grandi del passato, oramai non porta molto più lontano dell'impiego ben retribuito presso una qualche multinazionale straniera, o del posto di ricercatore presso un qualche centro di ricerca, magari da quella finanziato. Il sentimento di frustrazione del moderno istruito -elementare o universitario che sia- è caratteristico di un'istruzione che oramai non aiuta più a comprendere il mondo, ma solo ad entrarvici meglio. Per questo l'insistenza posta sulla cosiddetta meritocrazia è fuorviante: la meritocrazia scolastica e universitaria è la proiezione della meritocrazia produttivistica del lavoro, imperniata su efficienza, velocità e quantità, dove la qualità del sapere esistente -che pure spesso non è poca- è tuttavia funzionale a un sistema dove viene assorbita, fagocitata, resa inutile o impotente. Di mezzo c'è sempre il mondo della produzione con i suoi standard internazionali di cui non possiamo più fare a meno. Anche i settori più "puri" come le lettere o la filosofia, alla fine risentono di questo clima quantitativo e specialistico, e diventano delle sorte di ingegnerie letterarie o filosofiche.
E' inevitabile pertanto che la logica primaria dell'istruzione (che sia liceale o universitaria è lo stesso) sia quella della quantità di nozioni accumulate e di conseguenza della velocità di apprendimento -che è per definizione acritica perchè non lascia il tempo per comprendere pienamente, ma esige accettazione immediata. Non è casuale l'importanza assegnata alla memoria, facoltà tipica di chi non comprende quello che ha davanti, ma deve immagazzinarlo come cosa estranea, e quindi con fatica e in fretta. Ma la conoscenza è cosa diversa dall'immagazzinare nozioni. Essa non richiede di ricordare esplicitamente delle "cose", ma di giungere a una comprensione unitaria di esse: di un libro posso anche non ricordarmi quasi nulla della "materia", ma avere capito perfettamente lo spirito che vi sta dietro. Il che non emerge certo dalla classica valutazione da interrogazione o da esame, ma solo da una frequentazione duratura del tipo maestro/allievo, impensabile nell'attuale industria democratica dell'istruzione quantitativa. E in questa ottica si inserisce la questione dell'insegnamento nella scuola moderna. L'insegnamento può diventare sempre più raffinato, sempre più legato a modelli pedagogici all'avanguardia, ma questo non cambia di una virgola la questione, anzi la peggiora perchè probabilmente irrigidisce il modello. Si tratterebbe innanzitutto di non vedere un insegnamento di nomi, di epoche, di "cose" oggettive e anonime da immagazzinare e da valutare secondo metodi "oggettivi" (l'esame, il voto, il compito, il test), ma di trasmettere una visione del mondo, un'attitudine, una capacità creativa, una passione, che non richieda quindi di passare in rassegna tutti i nomi o tutte le epoche come in una lista della spesa. L'insegnante dovrebbe trasmettere all'allievo l'amore per il sapere, perchè da questo il ricordo e l'apprendimento vengono di conseguenza. Dall'insegnante dovrebbe sgorgare passione e vita come da una fonte, non fredda e anonima erudizione. Utopia? Nemmeno per sogno. Questo ci riporterebbe certamente più vicini alla vecchia figura del maestro personale, del precettore che a quella del professore scolastico. E inevitabilmente metterebbe in discussione il dogma moderno dell'istruzione per tutti. Ma vivremmo in un'epoca in cui si potrebbe ancora pensare, dire e creare qualcosa, piuttosto che "consumare" cultura preconfezionata! Ma la preoccupazione moderna per l'istruzione per tutti, con programmi validi per tutti, corre parallela al disinteresse (o magari sarebbe meglio chiamarla "ostilità"?) di questa società per una vera conoscenza, che sia finalizzata alla comprensione reale del mondo e ad un rapporto più equilibrato con esso. L'ossessione per l'istruzione obbligatoria invece e, una volta conseguito il diplomino, il disinteresse totale per la serenità e la lucidità dell'individuo istruito, fanno pensare più ad un lavaggio del cervello che ad una sincera trasmissione di conoscenza: la scuola come mezzo per creare un esercito di conformisti! L'educazione vera invece seguirebbe, nei modi e negli oggetti di studio, le qualità e le attitudini personali: meno quantitativa certamente, ma soprattutto non universalistica nè "democratica", il che significa che chi non vuole studiare stia pure a casa in tenera età o vada a lavorare, e si lasci spazio ai meritevoli per esprimersi quali sono. Ne verrebbe fuori un mondo meno compassato, ma proprio per questo più vario e più vero. Questo sarebbe vero insegnamento. E' quello che distingue il sapere dall'istruzione: quest'ultima produce professori di filosofia, il sapere crea filosofi. Non è cosa da poco.
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