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La misura necessaria PDF Stampa E-mail

di Sergio Cabras

16 settembre 2009

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Uno dei tanti aspetti per i quali possiamo sentirci a disagio in questo mondo moderno è la sempre crescente deriva individualista e di perdita di senso. Ciò che viene meno, dunque, è al contempo il senso profondo del vivere e quello di appartenenza e di lealtà verso una comunità di simili e ciò che ci rende tali le altre persone.  Due aspetti, uno più sul piano spirituale, l’altro più su quello sociale/psicologico, di uno stesso fenomeno. Due aspetti dei quali possiamo trovare una radice comune ad un livello più basilare.
Durkheim, in “Le forme elementari della vita religiosa” individuava la sorgente del senso umano del “divino” nel sentimento di comunità, nel senso dell’appartenenza a questa come forza trascendente la condizione individuale e peritura del singolo e come “salto di condizione” che lo elevava oltre il quotidiano apparente e che era al tempo stesso matrice di ogni valore culturale. Ed anche religioso, in quanto questa  “essenza” della comunità veniva caricata di significati corrispondenti alla sensibilità condivisa ed ipostatizzata in forme più o meno antropomorfe di divinità.
Sia che vogliamo accettare questa analisi delle origini della religione o meno, non è difficile notare come ci sia un forte legame tra l’identificarsi con una comunità di appartenenza  (riconoscendovi le proprie radici e rispettando una lealtà verso le sue tradizioni) ed il sentimento religioso, il credere negli insegnamenti etici e morali e nel loro discendere da qualcosa di “superiore”.  Come non è difficile notare che entrambi questi aspetti siano stati travolti allo stesso modo dagli stessi passaggi storici.
Molti considerano questo come una liberazione, altri come una tragedia di cui portano il lutto e a cui vorrebbero porre riparo.  Per tutti non può che essere comunque una realtà di fatto, e la condizione forse più problematica è quella di chi, pur avvertendo innegabile il senso di liberazione, si sente purtuttavia orfano di qualcosa di importante e di necessario.
W. Reich  insegnava che, quando due fenomeni si presentano insieme in forme specularmente opposte e complementari, bisogna andare a cercarne un altro che sta alla loro base funzionale come origine comune e che questa ricerca avviene attraverso l’osservazione imparziale del modo in cui queste due realtà di fatto si producono.
Una cosa innegabile è che la crisi sia dell’identità che della solidarietà comunitaria, così come dei loro valori condivisi - compresi quelli religiosi - è avvenuta in seguito allo sviluppo tecnologico ed economico, al capitalismo e alla monetarizzazione (ovvero alla messa in vendita) del tempo dedicato al lavoro, separandolo così dal resto della vita (inventando così il “tempo libero”, ma rendendo in tal modo alienato sia questo che quello “lavorativo”).  Il lavoro, non più elemento di interazione (spesso comunitaria) con la natura nel produrre il necessario (com’era nel mondo contadino), ma ora diventato merce interscambiabile, ha progressivamente perso legame con il luogo e con altre forme di caratterizzazione specifica  e, con ciò, le comunità sono state disgregate in individui e sradicate dalla condizione concreta e necessaria che le aveva formate e le teneva insieme dando pure un senso ai loro valori e ai loro déi.  Il senso di comunità, il rispetto verso di essa, la solidarietà interna che la legava non erano qualcosa di strumentale/utilitaristico: erano autentici, ma non per questo esistenti ed autoperpetuantisi come valori astratti, validi in quanto tali. Vivevano del nutrimento di un terreno reale, fatto di povertà comune, di autoevidente bisogno reciproco (oggi o domani, ma sempre latente) di darsi una mano, di orrore di esser messi al bando in seguito a comportamenti contrari all’interesse collettivo.  Quando io non ho più bisogno di te e tu te  la cavi benissimo senza di me ed entrambi viviamo di salario o profitti che ci vengono da totali estranei in cambio di transazioni economiche (vuoi della nostra proprietà come pure del nostro tempo/forza lavoro), perché dovremmo mantenere un “sentire comune” che ieri ci proteggeva ed oggi ci limita?

 

I “valori” non stanno scritti in cielo: questo non significa che abbiano un valore solo utilitaristico (come vorrebbe una visione superficialmente materialistica): significa piuttosto che non sono una parte “superiore” e separata della realtà. Possiamo dire che sono l’essenza idealizzata dell’aspetto mentale della realtà nel suo vivere come esperienza in noi. Non sono però separabili da ciò che effettivamente, storicamente, avviene, e lo stesso si può dire delle visioni del mondo ed eventualmente, per chi ci crede, degli déi che delle stesse cose sono una versione ipostatizzata in forma personale.
Dunque, come non sta scritto da nessuna parte che la storia debba comunque volgere in una certa direzione (che sarebbe un’altra versione dell’idea del progresso, anche se volessimo connotarla in senso opposto), così non son mai bastate parole, insegnamenti e prediche a far sì che la gente capisse e seguisse certi comportamenti.  Perché l’essere umano non è per natura così razionale né così spirituale e neppure così ossequioso verso le tradizioni in quanto tali: egli agisce secondo le condizioni date ed essenzialmente cerca di vivere e, per quanto gli riesce (e secondo la sua comprensione) il meglio possibile (ragione, spiritualità e tradizioni – come pure il rispetto di esse – sono vie attraverso le quali questo percorso cerca di prender forma).
In ultima analisi il senso della vita è solo quello di vivere e questo, a seconda delle condizioni più o meno favorevoli, può significare dal sopravvivere al realizzare pienamente la propria vera natura e trasmettere ad altri questa realizzazione.
Probabilmente persone con un livello di consapevolezza particolarmente evoluto possono trovare una “via illuminata” anche in contesti socioculturali molto svantaggiati (come per certi versi è quello attuale), ed anzi potrebbero perfino trovar vantaggio proprio da questa disgregazione dei legami sociali, delle relative convenzioni ecc… Ma per la grande maggioranza delle persone le condizioni di vita determinano (spesso in modo ampiamente inconsapevole) la percezione della realtà ed i comportamenti conseguenti.
Oltre un certo livello di sviluppo le ragioni concrete che sono sempre state alla base del tenersi delle comunità così come del mantenersi delle credenze culturali e religiose che ne fondavano la vita, vengono meno (oltre un certo livello di libertà ed indipendenza individuali, anche le relazioni interpersonali ed il rispetto per esse diventano molto precarie, inconsistenti): non c’è una base necessaria per riconoscersi un’appartenenza e una solidarietà reciproca e gli ideali, se sono ideali puri, non bastano – e non sono mai bastati di per sé, neanche quando (apparentemente) bastavano.
Ora, dunque, di fronte a ciò che abbiamo davanti agli occhi e nelle nostre esperienze, due sono gli atteggiamenti possibili: o credere che tutta questa disgregazione generale sia la liberazione definitiva dell’individuo e della sua ricerca egoica di soddisfazione - salvo poi dover riconoscere che questa ricerca senza limiti non può che concludersi in una (auto)distruzione generale - o riconoscere che avere un orizzonte sociale di appartenenza/relazione che vada al di là di sé, ma che abbia pure dei limiti percepibili, è un’esigenza naturale di ogni essere umano, necessaria a creargli un ambiente che ha aspetti materiali ed immateriali quali quelli emotivi, psicologici, culturali, di visione ed orientamento nel mondo e nella vita, di scelte da fare e valori a cui ispirarsi.
Questi aspetti, però, non sono scindibili da quelli materiali che sono la comunità stessa ed il tipo di vita/modello economico di produzione-consumo ed interazione con l’ambiente su cui fonda la propria sussistenza e la forma che prendono le giornate e le attività dei suoi membri.
Pertanto, non è possibile immaginare di recuperare l’etica propria di una comunità integrata al proprio interno (e con l’ordine che regola l’ambiente naturale in cui essa vive) ispirandosi ai valori propri di quelle che furono, senza riportare anche (non la forma in modo letterale, che sarebbe impossibile, ma) le funzioni portanti di una tale comunità alle condizioni che esse stesse producevano quei valori.
Per andare più sul concreto, dunque, è solo entro un livello di sviluppo (o entro un livello di “povertà” – concetto molto relativo al tipo di società in cui si vive) che le persone, muovendosi sulla base della necessità, riconoscono legami e bisogni reciproci, rispettano il valore complessivo dei comportamenti integri e della lealtà.  E’ solo quando non siamo tutti liberi, mobili (“liquidi”?) ed intercambiabili che dobbiamo tener fede ai nostri impegni e dire sì come sì e no come no.     Dobbiamo percepire la necessità di avere dei valori per rispettarli e questo può avvenire solo entro una certa misura di sviluppo, di ricchezza (o povertà) e di consumi.  Entro comunità legate al territorio e perciò ad uno specifico tipo di adattamento all’ambiente e le cui dimensioni non superino un limite contenuto.  E’ necessario rispettare una misura in tutte le dimensioni su cui un insieme sociale può crescere perché il “senso” che la riunisce possa radicarsi e preservarsi su basi concrete e vitali (riunire e preservare sono anche il significato etimologico della parola”religione”).
E’ per questo motivo che le proposte che oggi vanno sotto il nome di Decrescita (ammesso che non degenerino nell’ennesima moda spennellata di verde), sebbene possano guardare solo ad alcuni aspetti di ciò che in un’ottica più ampia potrebbe far parte dell’ “antimodernità”,  hanno un’importanza decisiva senza la quale non si va da nessuna parte.  Il recupero di un senso fondante del vivere non verrà perché “è giusto che ci sia”, e neanche perché qualcuno vorrà fare una crociata per restaurarlo, ma solo se sarà radicato in una condizione materiale che lo renda necessario.
Non perché esista solo la materialità ed il resto siano fantasie utili a giustificare degli interessi, ma perché, al contrario, nella realtà, nel darsi fattivo delle condizioni, c’è sempre un aspetto di intelligenza, di illuminazione, che è ciò che troviamo quando comprendiamo che la Realtà, di cui siamo parte, esprime sé stessa, ma non secondo una logica umana, bensì una molto più ampia e impersonale.
Se è vero – come è vero – che ritrovarsi in comunità di simili è un’esigenza umana, tanto è vero che si cerca sempre di crearne quando si è giovani (e che un’infinità di movimenti dai localistici alle nicchie subculturali esprimono questa esigenza su piani che vanno dal politico al vandalistico);
se è vero che una volta queste comunità (con tutta la loro cultura di senso) accompagnavano gli esseri umani lungo tutto il corso della loro vita, morte compresa;se è vero che ciò accadeva quando si trattava di piccoli insiemi sociali legati dalla condivisione di economie di piccola scala, molto spesso agricole e comunque basate sull’autoproduzione e l’autoconsumo in cui il denaro liquido aveva una parte accessoria/complementare e certo non assoluta come oggi, mentre oggi le pseudo-comunità (senza radici) che i giovani cercano di creare si sfaldano proprio non appena questi incontrano il mondo del lavoro (ormai del tutto sradicante e tutt’altro che a misura d’uomo);
se ciò è vero, non ci è difficile capire come la disgregazione socio-etico-culturale presente abbia una madre che è la fine della dimensione di vita contadina e la sostituzione di questa con quella prima industriale ed ora consumista-globalizzata: l’avvelenamento e poi lo sradicamento definitivo di ogni radice.
A questi processi storici in cui milioni di persone si sono gettati perseguendo il sempre più grande-sempre più ricco-sempre più potente non si può opporre una carica contro i mulini a vento in nome del sempre più giusto-sempre più sacro-sempre più puro. Perché anche questa, al pari di quelli, non ha radici nella Realtà.
La Realtà, la Vita, non si divide in qualcosa di “inferiore” e di “superiore”, ma abbraccia tutti gli aspetti (sembra contraddittoria proprio perché è vasta e viva). Il suo solo senso (di “scopo”davvero non si può parlare) è quello di vivere: complessivamente (quindi non solo da un punto di vista umano) ed in armonia.  Per questo il solo principio, la sola saggezza sempre valida è il senso della misura: è concretamente da questo che bisogna ripartire nel costruire su basi strutturali nuove reti umane, nuove comunità e con esse il senso della loro esistenza, del nostro vivere. Ripartire da semplici condizioni strutturali sostenibili ed accettabilmente “povere” con la comprensione e la fiducia che la misura (e la capacità di comprendere quella giusta di volta in volta) sia un valore in sé, perché la Realtà – che ce la mostra questa misura – non è semplice “materia”, ma è, al tempo stesso, intelligenza autoregolantesi.  Per capire questa intelligenza non dobbiamo fare un passo indietro ancora verso un antropocentrismo, per quanto depurato, ma uno avanti verso un punto di vista più ampio.
Ed è per questo che possiamo coniugare il recupero dell’origine/essenza fondante delle tradizioni con la liberazione dalle loro forme restrittive, il cui rifiuto continua tutt’oggi ad alimentare la modernità.

Sergio Cabras
www.ecofondamentalista.it

Commenti
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stediludo (Super Administrator) 17-09-2009 00:07

Condivido lo spirito e l'esigenza di fondo dell'articolo. Nuove visioni del mondo non possono certo essere istaurate per decreto. Gli "dei" non risorgeranno certo perché isolati o dormienti "credenti" o "iniziati" prenderanno il potere e ne restaureranno il culto. Ogni tradizione, per dirla con Heidegger, si è sempre radicata nella Terra, in una "terra"; ovvero in un determinato modo di vivere e quindi di relazionarsi alle cose come agli altri - modo che non può che essere quello di tipo "comunitario" e fondato sulla "misura", come evidenzia bene l'articolo. E questo, a scanso di equivoci, non è certo "materialismo storico"; anzi, ne è l'opposto. Non si vuole infatti "liberare" l'uomo dalle presunte finzioni delle "sovrastrutture" riportandolo alla sua sola dimensione materiale, bensì ricreare le condizioni che uniche rendono possibile l'apertura alle dimensioni "altre". Perché è vero che se gli "dei" risorgeranno dipenderà innanzi tutto da loro, ma è altresì vero che noi dobbiamo pur porci nelle condizioni per saperne vedere ed accoglierne il ritorno. E secondo voi ciò è possibile finché si continuerà a vivere tra automi bionici e apparati tecnici? Nella civiltà della Tecnica "Dio è morto", e non c'è "credente" o "iniziato" che possa farlo rivivere. Un contadino analfabeta è più vicino agli dei che il più convinto credente che va a messa tutti giorni ma che in cuor suo crede nel potere emancipatorio delle centrali elettriche. Sempre che si tratti di contadini veri, quelli che sono stati anche i nostri nonni o bisnonni, non certo i novelli adepti delle agricolture biologiche, delle leghe antivivisezione e delle architetture a impatto ambientale zero. Anche questi, in ultima analisi, appartengono alla specie degli automi, dei tecnici d'apparato: nello squartamento del maiale di stagione può albergare ancora il "sacro"; nella "progettazione" dei pannelli solari no.
martiusmarcus (IP:95.235.203.232) 17-09-2009 14:34

Da una lettura superficiale del denso articolo di Sergio Cabras, volevo solo sottolineare:
1) chiarito che l'attuale sistema ha ucciso la comunità reale sostituendola con comunità virtuali (delle quali, ahinoi, anche questo blog fa parte...)
2) condivisibile - mai stancarsi di sottolinearlo - che i "valori" non nascono nei vasi da fiori ma derivano dalle condizioni materiali di vita in cui siamo immersi
3) rimane da dire il "qui e ora" di sergio ha il suo fascino, resta da chiedersi se lo avrebbe anche fuori da questo blog e se vincerebbe la gara con i SUV
4) comunque conforta sapere che qualche cervello lavori ancora per bene e per il bene: bastera?
Finché i cuori battono non ci arrendiamo. Forza Sergio!!!
Sergio (Registered) 20-09-2009 11:20

Caro Stediludo, io apprezzo la tua condivisione dello spirito dell'articolo ed anche molte delle osservazioni che fai a proposito, però, non è per cercare la polemica o per fare lo "scassapalle" (cito De Marco) di turno che viene ad animare il dibattito, ma per il fatto che in fondo siamo qui per confrontare punti di vista, mi/ti chiedo tu quale conoscenza diretta hai di persone che dedicano il loro tempo, le loro mani e la loro schiena a costruire altenative possibili al sistema che siamo concordi nel rifiutare non solo con la penna o la tastiera. Quale conoscenza diretta hai, voglio dire, di queste persone che tu definisci i "novelli adepti dell'agricoltura biologica": se hai mai condiviso un paio di giorni del loro lavoro e della loro vita, ascoltato le ragioni che li ha portati a fare le loro scelte ecc.... oppure se parli, a questo proposito, sostanzialmente in base a pregiudizi. Devo dire che un po' mi viene da sospettare per la seconda ipotesi, visto anche il modo in cui li accomuni a leghe antivivisezione, architetti biologici e non so cos'altro vorresti aggiungere, dato che niente affatto necessariamente si tratta dello stesso tipo di persone. Inoltre, anche allargando l'ambito, tu potrai legittimamente sentire una certa differenza antropologica con persone che hanno una storia diversa dalla tua, ma credo che questo faccia parte della diversità di cui parli rispondendo al post successivo sul pugilato (risposta che condivido) e dunque, ad esempio, ci andrei un po' più prudente sull'accomunare troppe persone nella categoria degli "automi e tecnici d'apparato" (quasi che questa comprendesse l'intera umanità esclusa la decina di nomi che ricorrono tra i post di questo sito, Massimo Fini, qualche altro intellettuale, i Talebani e pochissimi altri). Per esempio, le centrali elettriche non avranno forse di per sé un potere emancipatorio, però l'utilità dell'energia elettrica in sé non me la puoi negare - quantomeno non la nega l'uso che ampiamente ne fai - dunque chi ne progetta fonti alternative e sostenibili, come i pannelli solari, non svolgerà un ruolo "sacro", ma anch'esso utile ed importante sì.
Se concordi sul fatto che un modello di vita e di società contadina è più adatto a realizzare un senso della comunità e di valori fondanti ed una percezione del sacro che sostanzia l'esistenza, perché devi pensare che questo possa valere solo per nonni e bisnonni mentre per chi cerca di ricostruire una realtà funzionante in modo analogo oggi debba invece valere il contrario? A me pare che in questo modo - ed essenzialmente a causa di pregiudizi - ci si impedisca di trovare uno (forse il solo) sbocco praticabile e concreto all'uscita dalla Modernità di cui tutti parliamo, ma che qualcuno forse sta già iniziando in una varietà di forme sperimentali e pratiche che senza preconcetti troppo rigidi saremmo in grado di vedere, magari anche criticandoli e rilenvandone i limiti, caso per caso, ma apprezzandone anche il valore e il senso: non buttandoli tutti sbrigativamente nel mucchio del "non-sacro" - ovvero non-noi, finendo per definire questo "noi", mi sembra, puramente in senso negativo.
fosco2007@alice.it
lucianofuschini (Registered) 20-09-2009 13:06

L'ultimo intervento di Sergio mi offre lo spunto per un invito a riflettere sul fatto che antimodernità non è oscurantismo. Ci sono delle profonde cesure nella storia dell'umanità. Noi viviamo già nel vortice di uno di quei grandi turbini che lasciano un panorama di macerie. Si tratterà di ricostruire guardando ai grandi modelli del passato ma non pretendendo di riprodurre a tavolino, con operazioni cerebrali, ciò che soltanto le nuove e imprevedibili condizioni potranno far maturare. Intanto ben vengano tutti i tentativi di prefigurare un tipo di civiltà diverso, purché non siano intesi come ritocchi che permettano al sistema nel suo complesso di funzionare meglio.
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