di Fabio Mazza
20 gennaio 2010
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Tra i fenomeni che si sono generati non con la modernità, ma, si potrebbe dire, con la post-modernità -ammesso che possa avere un senso distinguere tra esse- vi è la crisi dell'istituzione familiare e soprattutto delle figure genitoriali ed educative. Anche se non potremo occuparci del primo problema, che di certo richiederebbe ben altra sede e impegno, e a cui comunque dedicheremo uno sguardo, proviamo ad inquadrare qui il secondo, avvertendo però che la “trattazione” esulerà da un esame approfondito che dovrebbe abbracciare epoche “tradizionali”, per incentrarsi quasi unicamente su tempi recenti e indicativamente sul secolo XX. Infatti fino a tempi relativamente recenti, grosso modo fino agli anni '60, la situazione, seppur larvata, era ben lungi dall’essere quella che vediamo ora, la cui drammaticità e emergenza anche “sociale” è sotto gli occhi di chiunque voglia vederla e non decida di vivere, come si suol dire, con le proverbiali “fette di prosciutto sugli occhi”. C’è stato un tempo in cui padre e madre non erano parole indicanti la mera generazione biologica di un figlio, ma stavano ad indicare dei ruoli, qualcosa a cui volenti o nolenti si era chiamati, e di cui anche la “società” e il clima esterno all’istituzione familiare, aiutavano l’accettazione e il mantenimento. Senza poter qui discutere della figura del “pater familias” di romana memoria, e alle sue articolazioni, giunte, ovviamente in forme spurie ed incomplete, al Novecento, è cosa acclarata, e sicuramente comprovabile da quanti tra noi hanno avuto la ventura di nascere in anni ove la crisi attuale era molto più latente, che la famiglia era ben altra cosa da quel simulacro che oggi ne porta il nome. È stato sostenuto che l’istituzione "famiglia" reggesse per questioni meramente formali, per “bigottismo” religioso o per convenienza, vista l’impossibilità o il forte limite (anche questo molto sopravvalutato) per la donna di accedere ad attività lavorative, che solo avrebbero potuto garantirgli un'indipendenza in primis materiale dall’uomo, con conseguente libertà di scelta in ordine al mantenimento della famiglia. Gli apologeti del divorzio e della “convivenza” hanno battuto per anni, specie in quelli nefasti del '68, su questi tasti, proclamando che la famiglia era un’istituzione borghese, fascista, patriarcale, superata, e, come in tutti i campi dove hanno messo malauguratamente il naso, sancendo parallelamente una libertà informe e anodina, spacciandola per “emancipazione” e “libertà di scelta”. Ora, è da precisare che è completamente lontano dalla nostra visione il sostenere che tali asserzioni non contengano un fondo di verità, laddove molte delle circostanze che permettevano alla famiglia “ante '68” di reggere, erano effettivamente convenzioni sociali di facciata, scevre in molti casi da un'effettiva volontà, e molto spesso basate sulla costrizione e il “dogma” di intangibilità del matrimonio, dovuto anche all’equivoco “confessionale” della religione cristiana, di “sacralizzare” ogni unione, anche quella tra esseri che non ne capivano assolutamente il senso, e che, in maniera non meno “bovina” di oggi, seguivano la corrente. Ma è altrettanto vero, che, per “amore o per forza”, si conservava, almeno fino alla prima metà del Novecento, una delle istituzioni fondamentali per la coesione e la tenuta di ogni aggregato umano, tanto più dove tali aggregati sono differenziati e articolati, come nelle società “moderne”. Così di fianco al progressivo decadere della famiglia, dinnanzi ai preminenti interessi edonistico-individualistici del singolo componente la stessa, sono parimenti decaduti e scemati i ruoli che all’interno della stessa erano appannaggio (o dovevano essere tali) di uomo e donna.
La perdita di responsabilità, cosi come il rifiuto del moderno uomo democratico di accettare il proprio ruolo e la propria funzione all’interno della compagine sociale, si è poi diffusa come un cancro in ogni settore della società stessa, non esistendo settori avulsi o impermeabili alla disgregazione individuale e interna del singolo. Cosi la stessa scuola, le stesse istituzioni “formative” che potevano essere -con tutti i formalismi e le ipocrisie quelle si, tipicamente borghesi- le parrocchie e in certa misura anche la “leva” militare, (tolta perché non disturbasse troppo l’individualismo e gli interessi propri delle nuove generazioni), si sono piegate a questi diktat moderni, democratici, egualitari ad oltranza, ed in definitiva livellatori e contrari ad ogni differenza. A tutto ciò si aggiunga il clima da “guerra civile” che ormai è un connotato della moderna “famiglia nucleare”, per cui si arriva a situazioni parossistiche di padri costretti a mendicare l’affidamento dei figli, con tribunali compiacenti che, in ossequio al nuovo “femminismo” imperante (alla faccia di chi parla di “parità”) e di una discriminazione all’incontrario, sposano in pieno la teoria per cui è la madre, salvo casi macroscopici di inadeguatezza, a meritare l’affidamento prevalente del figlio, mutilando cosi, se questo è maschio, il passaggio di conoscenza “virile” e di formazione tutta maschile in cui la donna non deve avere peso alcuno, che solo un padre può garantire, e generando schiere di amorfi incompleti e malformati, che vanno ad incrementare la pandemia della confusione di ruoli, che è ormai sempre più spesso anche confusione sessuale e identitaria; o di figli che vittime del edonismo e dell'immaturità genitoriale imperante, sono trattati come pacchi e considerati nella misura in cui non intralciano la “way of life” dei genitori, divisi (ad età che un tempo erano considerate di piena maturità) tra aperitivi, serate, lifting e “healty living”. Cosi assistiamo quotidianamente a terrificanti dibattiti televisivi sull’ “allarme giovani”, con genitori che, lungi dall’essere davvero tali, si comportano piuttosto come epigoni di amici dei figli, legittimando le loro rinunciatarie concessioni in tutti i campi, con assunti deliranti, secondo cui i figli farebbero comunque certe cose alle loro spalle, valendo a quel punto agevolarli e “controllarli” in queste attività. Di tal guisa, affianco a genitori che sostengono la necessità che i figli confidino loro ogni loro intima attività, foss’anche sessuale, e che arrivano ad acquistare per i giovani preservativi e pillole anticoncezionali, troviamo quelli che non obbiettano minimamente all’organizzare nelle loro case festini tra giovani a base alcolica o ad acquistare gli “spinelli” (che spesso e volentieri fumano con loro), sostenendo cosi di evitare che i figli compiano le medesime attività per la strada, o che entrino in contatto con situazioni criminose o pericolose. Del resto, dicono questi “democratici” genitori, ex “contestatori” e “ribelli” da operetta, i giovani fanno tutti cosi! Se do a mio figlio dei limiti (e non lo assecondo nella direzione imbecille della massa, diremo noi), lo metto in un angolo! Ponendo cosi i pochi genitori ancora tali e degni di tale epiteto, nell’angosciosa alternativa di dare una direzione “forte” e “valoriale” ai propri figli, o renderli degli handicappati sociali, come si interrogava Massimo Fini in una sua lettera al figlio. Ma dietro a questa improvvisa ebbrezza di “comprensione” e di egualitarismo di facciata, si vede in realtà solo un “lavarsi le mani”, un abdicare al proprio ruolo formativo, laddove questo è foriero di conflitti e di prese di posizione, anche forti e “impopolari”, per un “quieto vivere”, che è quello per intenderci, del genitore fallito ex sessantottino, che giustifica dinnanzi al professore ogni comportamento del figlio, anche quello più ingiustificabile, e che invoca ad oltranza la comprensione, quando per molti di questi giovincelli, sarebbe di gran lunga auspicabile una sonora dose di legnate per ristabilire, laddove non vi si possa giungere per vie di dialogo e di comprensione dei motivi, a rinsaldare la gerarchia insita nella differenza sostanziale che sussiste tra un genitore e un figlio. Ma tutto questo “excursus” a cosa vuole arrivare? Qual è la questione fondamentale e di drammatica attualità? È semplice: dov’è la figura di riferimento? La figura (beninteso figura paterna quanto materna) che è preposta alla trasmissione della “conoscenza” intesa in senso lato comprensiva della visione del mondo, della morale, dei principi, delle aspettative e della “condotta” o “tenuta” che un figlio o una figlia devono interiorizzare per divenire a loro volta trasmettitori di quella stessa “conoscenza” alla generazione successiva?Dov’è quella persona che deve, per formare uomini e donne, e non figure miserabili e incomplete, instabili e nevrotiche parvenze degli stessi, dire se necessario anche dei no, e insegnare che vi deve essere rispetto per ciò che è più “grande” di te, per ciò che ti ha generato e per principi e valori che, seppur trasmutati e modificati dalle nebbie del tempo, mantengono comunque un nucleo orientativo che sempre deve persistere in qualsiasi civiltà sana? Sparito. Al suo posto un timido figuro, in balia dei capricci dei figli, delle “mode”, dei diktat della produzione che lo costringono a fare i salti mortali per accontentare le smanie livellatrici dei pargoli, esclusi altrimenti dal “gruppo”. (E questo è un altro paradosso della società “democratica” ed “egualitaria” dove tutti sulla carta sono uguali, anzi devono essere uguali, e dove parimenti sei discriminato se non porti una firma o non accetti i ridicoli status symbol creati e pompati ad arte dalla stessa demonica società “democratica”; ma questa è un'altra storia). L'allarme gioventù quindi non esiste, perché solo in occidente ai giovani è stato dato tutto questo peso, quando in qualunque civiltà ed epoca i giovani contavano relativamente, e sempre meno dei “vecchi”, che conservavano l’esperienza e la conoscenza e che erano fari di quelle società: ma in una società dove non esistono uomini e donne ma consumatori e produttori, e considerato che il giovane consuma e soprattutto produce di più, il vecchio diventa un essere inutile, che non sa neanche usare le “nuove tecnologie”, che cambiano in continuazione, e che non produce quasi nulla o poca roba. Quindi largo ai giovani! Così sarebbe da proporre un nuovo argomento a tutti i talk show, giornali, radio, trasmissioni spazzatura, che insozzano le nostre esistenze quotidiane: non l’ “allarme gioventù”, bensì l’ “allarme genitori”. A meno che anche questi, come molte altre “specie in via d’estinzione” non siano già finiti in qualche elenco di “specie protette” stile WWF. |