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Perchč non si parla pił di mafia PDF Stampa E-mail

31 luglio 2007

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L’allarme non arriva da un semplice spettatore delle cose italiche, né dal sociologo di turno, impegnato a districarsi in analisi compunte in qualche talk show televisivo. Il grido, pieno di ansia e di dolore per un Paese malato di indifferenza e di corrotta ipocrisia, arriva da chi lotta da anni contro la mafia, il cancro simbolo del nostro assurdo parlamentarismo, la meretrice disprezzata di giorno e circuita di notte dalla finanza, dalla politica, dagli insospettabili, dai notabili inconcludenti. Don Luigi Ciotti, fondatore della cooperativa Libera, da alcune settimane non ripete altro. Lo ha fatto nella conferenza degli Stati Generali dell’Antimafia organizzati a Roma, lo ribadisce in un incontro-dibattito con i protagonisti del Premio Ilaria Alpi, coinvolgente come pochi, andato in onda, guarda caso, su una piccola emittente satellitare (credetemi: altro che Porta a Porta). «Quello che dico – ha osservato il prete - è grave e spaventoso: al di là delle cerimonie e delle rievocazioni pompose e di facciata, l’informazione è schiava dell’economia e dalla logica del consumo. Si dicono solo i concetti buoni a non urtare la sensibilità. C’è un silenzio inquietante riguardo tante cose che accadono e che non vengono evidenziate da nessuno». Don Luigi, però, ne ha anche per altri e tira in ballo l’attuale maggioranza di centrosinistra, impegnata, come peraltro di consueto tutte, a lusingare prima e a negare poi. «L’Unione aveva promesso prima delle elezioni un’agenzia unica dei beni confiscati alla mafia. Ma in alcuni suoi esponenti ora si oppone. Se si pensa, infatti, che su 800 aziende sequestrate alla mafia solo 30 sono riuscite a decollare, bisogna strutturare un organismo consono alla buona riuscita delle cooperative “libere” ». Addirittura è la mafia stessa, in alcuni distretti ad alto indice di criminalità, a dirigere mezzi di comunicazione. È il caso di certi giornali locali in Calabria. O quello della provincia di Caserta che con i suoi servizi contro Don Pepe Diana, ha isolato un prete coraggioso come pochi, finito per essere stritolato dalle spire della camorra. «A Gioia Tauro, feudo accettato della ‘ndrangheta – racconta Curzio Maltese, giornalista di Repubblica presente alla discussione – ho saputo di una pianura sterminata di capannoni amplissimi, ma vuoti dentro. Erano stati costruiti per fingere attività industriali mai esistite e allestiti dalla malavita per intascare contributi europei. Il servizio sull’argomento, andato in stampa sul mio giornale, non ha trovato nemmeno un epigono. È passato semplicemente come acqua fresca, mentre in un Paese normale avrebbe perlomeno spinto le istituzioni interessate ad intervenire con controlli ed ispezioni». Le cose nella nostra società di lobotomizzati che eleggono, ammirano, scelgono in tv altri lobotomizzati, va così: un sedicente cantautore si presenta a Sanremo cantando una canzone contro l’indifferenza nei confronti dei malati di mente e la platea che lo applaude dimentica che gli accusati sono proprio loro. Potere, forza e denaro attirano allo stesso modo mafiosi e gente comune. La quale, da par suo, non ha mai il minimo dubbio sulle proprie alte qualità civiche e morali per uscire dalla nebbia e pretendere il reale rispetto dei propri diritti di cittadini.

Antonio Talarico

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