17 dicembre 2011
![Image Image](https://www.giornaledelribelle.it/images/stories/z203.jpg) Gli avvenimenti di questi ultimi mesi e di queste ore di febbrili trattative non possono che riconfermare, se mai ce ne fosse ancora bisogno, la profonda necessità di cambiamento del sistema socio-politico-economico (e culturale) a cui siamo assoggettati e di cui siamo, nel contempo, vittime e complici. Ne siamo vittime nella misura in cui l’influenza del singolo è trascurabile rispetto alle scelte non già europee ma, molto prima, a livello di singola comunità locale e nella misura in cui il cittadino non ha il diritto di scegliersi il proprio rappresentante. Siamo complici quando, pensando di non potere cambiare lo status quo, cadiamo nell’errore di crederci e ci fermiamo nell’attesa che il prossimo miracolato dal Signore venga a toglierci le castagne dal fuoco. A nessuno piace gettarsi a pelle di leone sui problemi, ma lasciar fare sempre agli altri, con la paura di esporsi e la consapevolezza di non riuscire nell’intento, non è la medicina migliore. Neppure gettarsi a corpo morto tra le braccia di "grandi risolutori" ha sortito grandi effetti, anzi: ne abbiamo letto e visto a sufficienza negli ultimi cent’anni per trarne le dovute conclusioni. Con toni e modalità diverse, i grandi risolutori dell’odierno si riaffacciano, ben vestiti e con modi gentili, alla finestra del sistema capitalistico finanziario, richiamati dagli Eletti in qualità di promessi salvatori di Patrie e di interi continenti. Il grande nemico è diventato il sistema industrialista, nato dalla cultura illuminista della Ragione attraverso cui sarebbe stato possibile un progresso indefinito della conoscenza e della tecnica e che, a partire dalla Rivoluzione Industriale, l’uomo occidentale difende a denti stretti scatenando guerre (mondiali e non) per il sostentamento del proprio modello di vita, quello perfetto per il “migliore dei mondi possibili”. Il modello industrialista ha generato rigurgiti economici, ambientali, sociali e culturali ed ha ri-alimentato, nel tempo, sopiti istinti primordiali che facevano pensare più agli inevitabili effetti collaterali del farmaco prescritto piuttosto che a difetti strutturali della cura. Tutto questo sino a quando ci sono stati farmaci a sufficienza un po’ per tutti: poi i pazienti, stanchi dei medici e delle terapie, hanno iniziato a scendere in piazza. Manifestare una pacifica e organizzata indignazione è diventato certamente un primo ed importante passo per tentare la svolta: i Paesi arabi ci hanno provato, ma hanno dovuto fare (e faranno ancora) i conti con l’integralismo religioso complice il fatto che, al di la della protesta, i manifestanti non hanno portato controproposte concrete da spendere sul tavolo del possibile cambiamento. Anche in Occidente la rivolta, alimentata e ben organizzata attraverso la Rete, non sta portando ad evoluzioni del sistema: di fatto manca una finalità comune di intenti, e chi protesta non avendo il denaro per campare, si mescola a chi agisce esclusivamente a tutela del patrimonio di famiglia. La crisi “globale”, come è stata ribattezzata dal mercato economico per eludere responsabilità altrimenti chiaramente distinguibili, potrebbe essere la grande occasione per tentare un reale cambiamento, partendo dai movimenti e dalle associazioni già legittimate dal sistema attuale. In totale buona fede e con un’ottima dose di ingenuità si potrebbe pensare che i sindacati e le associazioni di categoria, ad un livello di coalizione insospettabile, potessero muoversi per primi, godendo di un riscatto di immagine e di una colossale iniezione di fiducia: tutti assieme, uniti per un reale cambiamento. Il che, in un clima di profonda e generalizzata crisi, non sarebbe un’ipotesi affatto impraticabile. Al punto che, probabilmente, anche i partiti politici potrebbero dare il loro contributo, ad esempio, accelerando la riforma elettorale in direzione di una democrazia diretta realmente a servizio della collettività: di destra, di centro o di sinistra. In ogni caso, la scelta che si profila sta diventando forzata più che forzosa: decrescita o recessione. Con la differenza che la prima la si può modellare e ridefinire ad uso e consumo del sistema molto prima che si trasformi inesorabilmente nella seconda, senza possibilità di ritorno. Una consapevolezza -questa sì “globale”- indispensabile per poter operare un cambiamento di questa portata non appare affatto ancora matura: la parola “decrescita” rimane ancora impronunciabile nella misura in cui l’unità di peso resta il PIL e lo sviluppo è sempre “sostenibile”. Eppure, guardando oltre le manifestazioni di piazza facilmente manipolabili e strumentalizzate ad arte dai soliti noti, ci sono avvisaglie di risveglio che si annidano tra le pieghe del positivismo industrialista. Alcuni interventi di politici anche noti, di giornalisti e di scrittori in trasmissioni su reti televisive ed in articoli di quotidiani nazionali in cui si fa riferimento all’esigenza di “ripensare il sistema” in maniera più o meno esplicita si mescolano, a tratti, alla malcelata consapevolezza che il settimo miliardesimo essere umano, per di più asiatico per beffa del destino, abbia gli stessi diritti di campare e di inquinare dell’opulento finanziere teutonico. Per adesso, accontentiamoci.
Alessandro Bavelloni
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