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La schiavitł del postmoderno: dalla quantitą alla meritocrazia PDF Stampa E-mail

21 gennaio 2012

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La sfida lanciata dalla modernità a ogni “sapere” è stata quella di tentare l’autoriduzione di se stesso al paradigma delle scienze naturali: per ogni scienza l’aspirazione legittima diventava cioè quella di “avere il proprio Newton”, che l’avrebbe portata a misurarsi sul terreno della verificabilità -confutabilità, dopo Popper- empirica, della controllabilità intersoggettiva e della capacità previsionale. Ritagliatasi una fetta del reale, ciascuna scienza doveva pertanto procedere a scioglierlo (ana-lizzarlo) nelle sue componenti ultime (a-tomiche) indagandone le leggi di interazione, ossia il meccanismo di funzionamento.
L’esprit de finesse soccombeva all’esprit géométrique, che da Euclide fino a Kant fu circoscritto alle sole scienze matematico-geometriche, la Ragione soccombeva all’Intelletto, il pensare al calcolare, la causa finale alla causa efficiente.
Del “reale” cadevano ad una ad una tutte le differenziazioni qualitative (disincanto del mondo), e, sotto il dominio della “legge del numero”, tutto veniva riportato a “oggettività estesa manipolabile”.
Nel campo delle scienze naturali questo ha determinato il più straordinario successo della storia dell’uomo, che è pervenuto a una descrizione dell’universo esplicativamente esauriente e causalmente efficace, da cui proviene tutto l’incredibile progresso nei campi dell’industria, dell’ingegneria, della medicina ecc ecc...
L’inverso si è realizzato nell’esportazione del paradigma alle scienze umane. L’inglobazione dell’uomo nella res extensa, e la sua messa a sistema, nei rigidi schemi dell’economia, della sociologia, dell’antropologia, ne ha infatti comportato l’oblio della propria essenza, che è appunto il non avere essenza -essere cioè “possibilità”, “apertura”, in termini esistenzialisti. Già Kant si trovò costretto a reintrodurre la libertà "dalla finestra", cioè nella sfera coscienziale, dopo averne constato l’inapplicabilità alla sfera fenomenica, in cui l’uomo co-soggiace al determinismo naturale. Heidegger andò a fondo nella denuncia, mostrando come l’entificazione dell’uomo, cioè la pretesa di stabilirne l’essenza, ne aveva prodotto la “caduta” a cosa tra le cose (merce tra le merci, aveva detto Marx), la mutazione ontologica da ek-sistente (cioé vivente in-determinato) a ente (cioé vivente pre-determinato).
Le due metà del cielo, ossia il mondo umano e il mondo animale-naturale, sono state così unificate sotto l’imperio della legge di necessità; e si è dato mandato alle scienze sociali di estendere all’ambito “umano” le medesime idiosincrasie descrittive/predittive delle scienze naturali.
Questa concezione del reale come indistinto qualitativo che va dal sasso all’uomo costituisce la “visione del mondo” in cui siamo immersi, e che, come detto, ha conseguenze immediate nella delegittimazione di qualunque concezione “essenzialistica” della realtà (mondo come pluriversum qualitativo), e nell’espunzione della nozione di “causa finale”, che sempre Kant recuperava nel giudizio estetico, meramente contemplativo. Variando Musil, viviamo l’epoca senza qualità: tutto è diventato quantità. Valide sono solo le scienze che illustrano nessi tra le parti, cioè descrittive, non quelle che pretendono di fornire senso al Tutto, assiologiche. Destino comune e parallelo è così toccato alla filosofia e alla politica, entrambe prive di oggetto ma bensì fornitrici di “télos” (scopo). L’una, scienza architettonica (secondo definizione aristotelica) delle “forme del sapere”, l’altra delle “forme del fare”. Entrambe, ovvero, “scienze prime”; entrambe rigettate come non-senso.
Assieme al loro tramonto si compie così la sparizione di qualunque pretesa interrogativa rispetto al “presente come totalità”, nei confronti del quale l’unico atteggiamento possibile diventa la volontà di assorbimento in una delle sue “parti”.
L’equivoco con cui l’uomo ha pensato di voler ridurre le proprie leggi alle “proprie leggi di necessità” trova così compimento nel Sistema attuale. La stessa nozione di Sistema è d’altronde la più congrua, poiché rimanda analogicamente alla strutturazione meccanicistica e funzionalistica propria degli organismi naturali. L’uomo contemporaneo, interiorizzata la legge di necessità che soggiace ai flussi economici, sociali, demografici, si dispone “autonomamente” a essere ingranaggio del Sistema, di cui comprende la dinamica perfettamente razionale. Dalla società della disciplina si passa così alla società dell’efficienza, in cui la sottomissione dell’uomo si esercita non più nell’adeguamento a una volontà arbitraria esterna, ma nell’adeguamento alla propria legge interiore, che è diventata legge di necessità, e non di libertà, in un ribaltamento dell’auspicio kantiano.
Il grande sociologo della modernità, Max Weber, identificò non a caso nel “funzionario” la figura paradigmatica dello Stato moderno: questi è infatti l’agente dedito alla razionalizzazione di mezzi in presenza di fini pre-determinati e in-discutibili, in quanto naturali. Sua naturale evoluzione, nell’epoca della globalizzazione, l’individuo “a taglia unica” ultracapitalista e iperrelativista.
I totalitarismi politici novecenteschi, checché se ne blateri nella “chiacchiera” accademica, rappresentarono proprio il tragico tentativo di reimmettere la “vita” nel Sistema; ciò è specialmente evidente nel nazismo, tragica ambivalenza di gelido razionalismo e fanatico irrazionalismo, di ipermodernità e antimodernità.
Ma qual è dunque lo stato dell’arte dopo il secolo dei totalitarismi e delle guerre mondiali? Abbiamo forse riscoperto la libertà assieme al guadagno della “pace perpetua”?
Neanche per idea. La pace perpetua cui assistiamo è la mala pax della disillusione. Il Sistema è approdato alla sua versione quintessenziale, poiché ridottosi alla dimensione puramente “formale”, quella cioè di semplice contenitore di leggi completamente naturalizzate. In tale contesto si coniuga definitivamente con la realizzazione della piena libertà dell’individuo come “libertà da” (la libertà dei moderni). L’individuo postmoderno è così completamente svincolato esteriormente e al contempo completamente cooptato interiormente. L’adesione alle leggi del mercato presentate come naturali e in generale al “presente” come intrascendibile è inconscia e assoluta. La presenza di un potere dispotico si rende così inutile, e gli epigoni dell’illuminismo, di cui in Italia abbiamo un folto drappello, possono perseverare nella loro crociata contro il Potere -immancabilmente arbitrario, oscurantista e piduista- senza costituire il benché minimo pericolo per il Sistema. Anzi, rappresentandone il più prezioso alleato, poiché teso a spazzar via gli ultimi residui di “vecchio potere” che ancora resistono.
In questo senso veramente emblematica la battaglia per la meritocrazia, vera e propria bandiera senza colore, “parola colluttorio” oggetto di gargarismi bipartisan. Il Sistema-Dio ha bisogno di scegliere (fare recruitment, nel lessico anglomane del Nuovo Potere) i propri ingranaggi tramite criteri quantitativi di selezione, e questi si risolvono nella battaglia per il “merito”, inteso appunto come quantificazione del valore delle capacità personali, messe in vendita come al mercato degli schiavi. L’uomo è così compiutamente negato come “regno dei fini” e come creatore di “qualità”, ed è messo a totale disposizione strumentale del Sistema. Homo hominis objectum.
Nondimeno, accompagnandosi alla completa rivendicazione del soggetto come autoponentesi in assenza di vincoli esterni, il peggior totalitarismo della storia riesce tuttavia a esibire il fascino ambiguo del libertinismo. Ciò particolarmente evidente nell’ultimissimo sviluppo postborghese, in cui la compulsiva dinamica di creazione ex nihilo di bisogni non naturali e non necessari rende improcrastinabile la riabilitazione e la messa a sistema dell’elemento creativo. “Anche il riso è diventato maledettamente serio”, ammise Milan Kundera nell’Immortalità.
Servono veri creativi.

Matteo Zullo

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