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Elogio dell'intolleranza PDF Stampa E-mail

18 luglio 2012

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Qualunque cosa significhi il termine intellettuali, il loro compito primario, soprattutto quando lavorano nei media, sarebbe di demistificare il linguaggio, depurandolo delle incrostazioni e permettendo così quella trasparenza che dovrebbe essere la precondizione indispensabile di quella democrazia di cui  il sistema tanto si vanta. Ebbene, gi intellettuali fanno esattamente il contrario. Il loro lavoro, ben remunerato, consiste nella manipolazione consapevole e propagandistica del linguaggio, un’operazione letteralmente delinquenziale. Gli esempi sono innumerevoli.  Basti ricordarne alcuni dei più vistosi.

Quando un combattente suicida si fa saltare in aria in mezzo a un reparto di soldati invasori del suo Paese, tutti i media compatti parlano di “vile attentato terroristico” . Se questa è viltà, ritiriamo tutti i vocabolari in circolazione e ridefiniamo i significati delle parole. Le aggressioni imperialiste sono chiamate “missioni di pace” o “ingerenza umanitaria”. Un’alleanza militare fra alcuni Stati diventa pomposamente “la comunità internazionale”. Quando si decidono licenziamenti di lavoratori, determinando tragedie nelle famiglie, fino al suicidio, si parla di “personale in esubero”, usando un termine che, evocando la parola esuberanza, suggerisce impressioni di sana e gioiosa vitalità. Dal versante progressista, quello che M.Fini definisce delle “suorine di sinistra”, si fa abuso dell’accusa di “razzismo”. Questo termine dovrebbe correttamente definire coloro che sostengono che certi gruppi etnici sono per natura inferiori da un punto di vista intellettuale o etico. Definendo esattamente il termine, il che dovrebbe essere compito proprio degli intellettuali, risulterebbe che pochissimi italiani sono razzisti. Quello che viene definito “razzismo” è soltanto una reazione emotiva a fenomeni di degrado riferibili anche alla massiccia immigrazione, un’immigrazione che non è una “felice opportunità” come vogliono le suorine della sinistra, ma un grande dramma della globalizzazione del capitale, innanzitutto per gli immigrati ma anche per chi subisce gli sconvolgimenti del tessuto sociale.   Si potrebbe continuare a lungo con gli esempi di mistificazione linguistica.

Basti soffermarsi su un ultimo punto: l’uso strumentale del termine ideologia. Il pensiero dominante si basa su tre pilastri concettuali: sviluppo, competitività, mobilità. Ognuno di questi concetti è minato da contraddizioni tali da renderlo insostenibile. Ormai dovrebbe essere chiaro che lo sviluppo e quindi la crescita continua è incompatibilie con le risorse limitate di un sistema chiuso e finito qual è un pianeta. La competitività implica competizione. La competizione è una gara e in una gara ci sono vincenti e perdenti. Se qualcuno è competitivo, qualcun altro deve soccombere. Dire “anche gli africani devono imparare a essere competitivi” è un’affermazione solo apparentemente indiscutibile. Lo dicevamo anche dei cinesi, degli indiani, dei brasiliani. Ebbene, hanno imparato a essere competitivi e la logica conseguenza è il nostro declino. Nella corsa forsennata della competizione, ora i vincenti sono loro. Quanto alla mobilità, non può conciliarsi con l’altro presupposto, quello della difesa della famiglia. La disponibilità a cambiare frequentemente lavoro e residenza significa sradicamento e crisi della famiglia. Eppure, nonostante tutte le contraddizioni che minano questa concezione, sviluppo, competitività e mobilità sono spacciati come qualcosa di naturale, di ovvio, la concezione che riflette fedelmente la natura delle cose. Il termine ideologia viene attribuito come etichetta spregevole a chi obietta che allo sviluppo continuo si deve contrapporre la mentalità della decrescita; che alla competitività si può contrapporre un’economia dello scambio reciprocamente conveniente, del dono, della collaborazione, secondo modalità che nobili civiltà hanno conosciuto e  praticato in epoche forse meno squallide della nostra; che alla mobilità si può contrapporre il radicamento in una comunità organica. Esprimersi in questi termini espone all’accusa di ideologismo. Siamo ideologi astratti, la realtà naturale e indiscutibile è quella della modernità sviluppista, competitiva, aperta alla mobilità e al continuo cambiamento, al continuo superamento dei limiti. Un’ideologia folle e devastante viene spacciata dai propagandisti del potere come l’unica visione realistica del mondo. 

Stando così le cose, essendo questa la pratica consapevolmente truffaldina di quel ceto intellettuale che è parte integrante e indispensabile del Potere,  è giunto il tempo dell’elogio dell’intolleranza. Con questa gente non si discute più.  

Luciano Fuschini    

 

Commenti
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daniela (IP:151.42.44.46) 19-07-2012 15:39

E' vero. Gli intellettuali oggi avrebbero compiti importantissimi da svolgere: demistificare, far riflettere sul significato vero di parole e concetti che i più usano a sproposito o ripetono a pappagallo formule menzognere. Sono pochi, troppo pochi quelli che si adoperano in tal senso. Mi colpisce in particolare, e positivamente, in questo articolo la riflessione profonda sul concetto di competitività. Diffondere un'ideologia altra può interrompere questo gioco al massacro che investe i rapporti umani economici, ma non solo? Come fare a reintrodurre semi di solidarietà fra la gente delle nostre comunità, nel macro, come nel micro? Come fare senza cadere nell'ideologismo astratto o al contrario in un mero pragmatismo da pionieri isolati?
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