Allegria di incendi |
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15 agosto 2012 In tutto il mondo quando c’è calura o soffia un forte vento roghi sempre più devastanti distruggono i boschi e minacciano gli insediamenti. L’Italia non è esente dal fenomeno, di cui non varrebbe la pena parlare se non offrisse lo spunto per qualche considerazione marginale rispetto ai commenti che di solito vengono fatti. Per fortuna si è smesso di propinare la balla dell’autocombustione, un tempo di gran moda. Più credibile è che alcuni roghi siano prodotti dalla distrazione, dall’incuria, dall’indisciplina. Ma ormai è finalmente appurato e ammesso che l’accendersi contemporaneo di diversi focolai dimostra che si tratta di dolo. Fino a qualche anno fa si poteva ragionevolmente supporre che ci fossero interessi economici dietro quegli scempi. Ora in Italia vigono leggi abbastanza severe che proibiscono di costruire in luoghi devastati dagli incendi, quindi questa motivazione ha minor rilievo di un tempo. Anche gli interessi di gruppi di lavoratori stagionali non possono essere così forti da provocare disastri di tale entità. Si può sospettare pure qualche matrice politica, vedendo nei vasti incendi la mano di gruppi terroristi. La ragione più vera però è probabilmente altrove, sepolta nel profondo della psiche dell’uomo moderno. Il Dostoevkij de “I Demoni”, che di nichilismo si intendeva, scriveva: “Dubito sia possibile contemplare un incendio senza provare un certo piacere”. Il nichilismo è la causa fondamentale del dilagare dei roghi. Un desiderio cieco di distruzione e di autodistruzione. Il rogo come spettacolo di per sé appagante, pulsione cieca come l’omicidio del tutto gratuito degli psicopatici che in America si appostano ai lati delle autostrade e sparano sul primo che transita, come i sassi gettati dai cavalcavia per vincere la noia e il nulla che ci possiede, come il teppismo e il vandalismo che non hanno altra ragione che non sia lo sfogare le frustrazioni nel gesto demolitore. Non è il caso di cercare sempre una logica, un calcolo, un interesse. Dietro i roghi c’è spesso soltanto la rabbia di un io che si esalta nello spettacolo di distruzione e che in quella contemplazione si sente onnipotente. In epoche lontane prima di tagliare un albero si sacrificava alle divinità del luogo, perché tutto era sacro e senza l’espiazione del rito si rischiava la maledizione che avrebbe sconvolto la vita del sacrilego e della sua progenie. Subentrò un’epoca che assoggettò la natura al potere di una umanità prima delegata al dominio da un Dio senza volto, poi liberatasi anche di quell’ombra per fare di se stessa e della propria scienza un’entità onnipotente. Sempre si sono compiuti scempi sull’habitat naturale. Popoli primitivi (usiamo pure questa espressione che non ha nulla di offensivo) bruciavano le foreste per rendere il terreno produttivo e coltivabile, prima che le tecniche agricole venissero affinate. Si trattava pur sempre di un atto calcolato, finalizzato a un risultato. Nei roghi odierni c’è soltanto il nichilismo di un mondo che sente di non avere più un futuro. Luciano Fuschini
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