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La copertura delle rogge PDF Stampa E-mail

17 agosto 2012

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Questo testo è tratto da Rassegna Stampa di Arianna del 27-6-2012 (N.d.d.) 

 Riteniamo che quanto è accaduto al volto delle aree urbane negli ultimi sessant’anni non sia stato il frutto di una fatalità o di una casuale concomitanza di fattori espansivi di diversa natura, ma il risultato di una azione pensata, voluta e perseguita da una perversa alleanza fra un pugno di architetti e di urbanisti ambiziosi e disinvolti, e delle amministrazioni comunali smaniose di farsi belle davanti alle rispettive cittadinanze  con una febbrile “politica del fare”.

L’importante, dopo la fine della seconda guerra mondiale e agli inizi del “boom” economico, specialmente nelle città dell’Italia settentrionale, era abbattere i vecchi quartieri, ricostruirne di nuovi, sostituire con condomini anonimi e grandi magazzini le vecchie osterie, i vecchi caffè,  i vecchi cinema; far sparire le antiche rogge, dove per secoli le donne avevano lavato i panni, per acquisire spazio da edificare o per il traffico automobilistico. Certo, in molti casi può essersi trattato anche di una serie di circostanze fortuite e di iniziative spontanee; ma in molti altri riteniamo vi siano state una regia e, se così vogliamo chiamarla, una filosofia ben precisa. Solo così si può spiegare la demolizione di chiese e campanili, l’asportazione di fontane pubbliche e di statue (finite magari nel giardino di qualche privato), la cementificazione selvaggia, la sistematica proliferazione di nuovi edifici di culto che possono anche interessare lo studioso di architettura moderna, ma che di sicuro non favoriscono il raccoglimento e la preghiera dei fedeli.

C’era stata la guerra e molti edifici, molti quartieri erano stati distrutti dai sistematici bombardamenti aerei dei generosi “liberatori” anglosassoni. Questo rese necessaria una radicale ricostruzione e fornì il pretesto per sperimentare la nuova filosofia urbanistica, basata sull’assunto che il nuovo è sempre meglio del vecchio; che rifare di sana pianta è sempre meglio che restaurare; e che, insomma, non val la pena di darsi tanto da fare per armonizzare passato e presente, perché il passato merita di essere spazzato via, è il simbolo del male, della miseria, di un tempo che non si desidera ricordare, che si cerca anzi di cancellare dalla memoria collettiva. È stata una sorta di assalto organizzato, in cui i vecchi edifici sono stati trattati senza misericordia, come quando un esercito vittorioso non intende fare prigionieri tra gli sconfitti; e l’inutile distruzione di edifici che potevano benissimo essere salvati è scaturita da una aberrante ideologia “futurista”, decisa a creare il fatto compiuto prima che la cittadinanza avesse il tempo di rendersi conto di quel che stava accadendo e, anzi, con la precisa volontà di accattivarsela mediante una politica demagogica, basata sull’offerta di nuovi servizi e nuovi consumi di massa.

In tale prospettiva, il passato era il Male e il futuro era il Bene; una minoranza di intellettuali, aggressiva e dinamica, sapeva come realizzare il regno del Bene e intendeva farlo ad ogni costo, a marce forzate, si capisce nell’interesse del “popolo”: era l’ennesima riproposizione del mito illuminista del Progresso, versione secolarizzata delle religioni di salvezza, con le antiche nozioni di Peccato, Redenzione, Inferno e Paradiso.«Indietro non si torna» sembra essere stata la parola d’ordine di questa nuova classe dirigente che, decisa a consumare il parricidio nei confronti della tradizione, deliberatamente volle tagliare i ponti col passato e creare uno stato di fatto irreversibile: la cittadinanza non doveva poter scegliere fra due opzioni; doveva essere accompagnata, in un modo o nell’altro, in quell’ordine di idee la cui giustezza era data per scontata, e doveva vedere nel passato una pagina da dimenticare, una pagina fatta di sacrifici, di rinunce, di povertà (non importa se dignitosa) che era durata anche troppo. Un buon esempio della nuova pianificazione del territorio urbano è stata la copertura delle rogge, i corsi d’acqua artificiali che da secoli e secoli attraversavano i centri cittadini e che, in parecchi casi - quello di Milano e dei suoi “navigli” è solo il più noto - davano ai quartieri interessati un singolare aspetto “veneziano”, con i barconi carichi di merci e con lo spettacolo quotidiano delle massaie intente a lavare i panni a cielo aperto, per poi stenderli ad asciugare. Ma anche quando non erano elementi della viabilità che mettevano in comunicazione la città con altri centri o con il mare - come a Treviso, dove i barconi del Sile risalivano la pianura dal Mare Adriatico e facevano perno su un quartiere extra-urbano, Fiera, per lo smistamento delle merci - si trattava di elementi caratteristici del paesaggio urbano, che, se anche avevano perso l’originaria funzione economia e sociale, rappresentavano tuttavia un fattore di continuità dal punto di vista estetico e affettivo[...]

 Coprire le rogge sembra essere stato un atto simbolico, una specie di cerimonia funebre e, nello stesso tempo, un rito di esorcismo; come dire: che i morti scompaiano alla vista e non vengano a turbare l’esistenza dei vivi, tutta proiettata verso il domani. Ogni volta che gli amministratori di una città prendono la decisione di eliminare una roggia - o un vecchio quartiere, o un cinema storico, o un locale molto caratteristico - è come se tagliassero via una parte delle radici di quel tessuto urbano, di quella storia. Le ragioni dell’economia e del progresso vengono messe avanti per tacitare qualunque perplessità, qualunque obiezione; anche se magari, a ben guardare, molte di quelle distruzioni potevano essere evitate, se solo si fosse voluta adottare una diversa filosofia urbanistica.

È sempre il solito ricatto, il ricatto di un progresso auto-referenziale, dalla verità assiomatica e tautologica: bisogna rimuovere il passato per fare spazio al progresso e, nello stesso tempo, bisogna aprire le porte al progresso, azzerando e cancellando anche il ricordo del passato. A nessuno viene in mente di chiedere cosa sia mai questo progresso, questa entità metafisica che sembra domandare il sacrificio della tradizione, l’assassinio e l’olocausto di tutto quel che c’era prima, visto come ostacolo e fattore d’inciampo; e in pochi si domandano se le sue ragioni siano così cogenti, così ultimative, da non ammettere alternativa all’infuori di un brutale “aut-aut”: o amici o nemici, o noi o loro.Le nostre città, così, procedono per strappi successivi; strappi del loro volto urbanistico, non meno che del loro tessuto sociale e della loro atmosfera spirituale.

Le città, infatti, non solo solamente un aggregato di uomini e cose: hanno un’anima, un’anima che si è formata nel corso delle generazioni e che è fatta, oltre che di razionalità calcolante e strumentale, anche di valori dello spirito, di gioie e dolori, di affetti, di legami, di ricordi. Una città senz’anima, o una città alla quale venga strappata l’anima, si riduce a un luogo anonimo e spietato, ove ciascuno vive in piena indifferenza rispetto agli altri e dove nessuno crede più a niente, se non al proprio interesse e al proprio vantaggio; in cui dominano la solitudine, l’isolamento, la paura reciproca o, quanto meno, la diffidenza e il sospetto: insomma una “terra desolata”, per dirla con George Eliot, stranita e allucinata. L’anima delle città si conserva nelle famiglie, nelle case, nelle ma anche nelle strade, nelle piazze, nelle scuole, nei locali pubblici; nelle osterie dove la gente si ritrova e si rilassa dopo una giornata di lavoro, parla con gli amici, gioca a carte; non certo nei moderni bar all’americana, dominati dalla musica a forte volume e dal fracasso dei giochi elettronici, ove ciascuno si isola alla ricerca di una distrazione solitaria e all’inseguimento del miraggio di una vincita di denaro. L’anima delle città è fatta anche di sensazioni: del chiacchiericcio delle rogge e delle fontane; del venticello tra le fronde degli alberi; delle grida argentine dei bimbi che corrono e saltano nei giardini; del merlo che canta sul ramo o dei colombi che tubano sui tetti; delle voci del mercato, ove la gente esamina le merci, fa acquisti, si scambia saluti e brani di conversazione. Una città in cui tutti vanno di fretta, in cui non vi sono luoghi e occasioni d’incontro, in cui si odono solo i rumori del traffico, non è un corpo vivo e non possiede un’anima: è solo un cadavere inerte, popolato da spettri - magari elegantemente vestiti - che ancora non sanno d’essere morti 

 

Francesco Lamendola 

 

Commenti
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Wolfram (Registered) 18-08-2012 14:57

Articolo di sicuro interesse, apre l idea al concetto che tutto ciò che sta avvenendo (in questo caso
l urbanistica) non sia frutto di incapacità tecniche o mala gestione della cosa pubblica ma la risultante costante di una mente (dis) - organizzatrice che con azione organica altera/cambia gli scenari tradizionali/umani che finora ci hanno accompagnato nel lungo viaggio delle tante generazioni. In effetti è il concetto e approccio ad un tipo di visione di vita che si vuol sradicare, compreso il gusto dell Estetica a favore del brutto, come anche manipolare il vissuto delle persone allontanandole dalla Forma qualità (compresa l esperienza del gesto eroico ed unico) per farle piombare nell anonimo numerico di un Caos quantità, mera somma di individui perfettamente (tele) - guidati;

la cittadinanza non doveva poter scegliere fra due opzioni; doveva essere accompagnata, in un modo o nell%u2019altro, in quell %u2019ordine di idee la cui giustezza era data per scontata.

E ancora;

È sempre il solito ricatto, il ricatto di un progresso auto-referenziale: bisogna rimuovere il passato per fare spazio al progresso e, nello stesso tempo, bisogna aprire le porte al progresso, azzerando e cancellando anche il ricordo del passato. A nessuno viene in mente di chiedere cosa sia mai questo progresso, questa entità metafisica che sembra domandare il sacrificio della tradizione.

Per tornare al discorso specifico sull urbanistica innanzitutto aggiungo che esso è strettamente imparentato con la deformazione estrema che sta vivendo la problematica (si fa per dire) della viabilità, anch essa, infatti, va a trasformare (o inficiare) la fisognomia dei Luoghi di interesse storico e naturalistico ed a cambiare le abitudini del cittadino (tempi e modi di spostamento diventano unici a scapito della eventuale diversa iniziativa del singolo).
E quando si parla di Luoghi con la elle maiuscola si intende anche quei posti (spesso inconsapevolmente ai più) tradizionalmente apportatori di Energia.
Ciascun luogo e ciascun gruppo ha un Genius Loci che può essere comparato a una divinità, la cui presenza continua dà carattere, coesione e spirito a quel luogo o a quel gruppo. Il Genius Loci cerca di mantenere un equilibrio congeniale tra gli elementi naturali e le culture, rappresentazioni molteplici dell essere. Al contrario, si irrita se le caratteristiche e l%u2019armonia vengono modificate da azioni o gesti estranei alla sua identità.
E la classicità, per esempio, che suggeriva (ma volendo suggerisce ancora) che i luoghi possono avere un anima e diventare sede di uno spirito del luogo, di un Genius Loci. I luoghi si guadagnano l anima, attraverso un processo di deposito, di accumulazione di affetti, che viene operato dalle diverse generazioni di persone che li hanno abitati.
Tutte le culture tradizionali e sapienzali erano animate da un interpretazione sacrale del territorio.
Abitare voleva dire permettere all anima dei luoghi di manifestarsi in chi viveva in quel dato posto, che la assorbiva in sé, rispettandola, rilanciandola in modo creativo; così l%u2019abitare diveniva un atto sacro di corresponsione con l energia spirituale della terra, che è la vita stessa.
Scopo dell architettura è la creazione di luoghi in cui la spazialità del Genius identitario si esprima in concordia con la ricerca dei propri sentimenti.
Purtroppo, oggi, la realtà è ridotta a ciò che si può misurare, quantificare, verificare; si negano i valori qualitativi, spirituali e metafisici.
Soggiaciamo al progresso materiale, all efficienza dell automatismo, alla specializzazione posta al di sopra di qualsiasi altro valore e, di conseguenza, distruggiamo la famiglia, la comunità e le tradizioni. La fede faustiana nella capacità tecno-scientifica di superare tutti i limiti relativizza i valori sostanziali, ontologici.
Giovanni Marini (IP:79.32.249.68) 19-08-2012 18:20

Non voglio discutere se sia stato giusto coprire le rogge o se ci sia un piano per abbattere costruzioni antiche per sostituirle con nuove, no, voglio parlare del senso di questi interventi che in gran parte condivido, ma non vorrei che quella che è una genuina ammirazione per le opere antiche sconfini in un morboso, paralizzante feticismo.
Sapete quante volte è stata rimaneggiata/demolita Roma antica? Qui un link alla storia urbanistica di Roma:
http://it.wikipedia.org/wiki/Roma_antica
E sapete che la gloriosa città in cui avete la fortuna di vivere sorge su macerie di una città più antica e questa su una ancora più antica fino ad arrivare al neolitico?
E lo sapete che quel magnifico tugurio medievale che avete comprato nel centro storico di quel pittoresco borgo toscano rischia di cadervi sulla testa alla prossima leggera scossa di terremoto? E non perchè gli Antichi costruivano male, costruivano benissimo, solo che il tempo è più forte di qualsiasi opera umana. Oh si, date tempo al tempo e di quelle magnifiche catapecchie (e purtroppo anche chiese e cattedrali) non rimarrà che polvere. Questo gli antichi lo sapevano benissimo perciò ri-costruivano quando gli edifici si facevano vetusti. Fu proprio Ottaviano l'Imperatore nonché Pontifex Maximus a dare lo sfratto ad una moltitudine di genii loci e a rendere Roma più bella e più sicura. Gli antichi, cari amici, demolivano meraviglie e ne costruivano di più belle e magnifiche. Cesare (altro grande innovatore dell'urbanistica) o Ottaviano non si facevano le seghe pensando alla Roma di Numa Pompilio e sapete perchè?
Perchè pensavano al futuro (orrore!) mentre noi siamo sempre ripiegati a rimpiangere il passato.
Wolfram (IP:151.25.106.225) 19-08-2012 20:45

Bè, qua si è voluto andare quasi fuori tema!
Un conto è il restauro, la miglioria o la necessità di ricostruire per fatiscenza ed un conto invece lo stravolgimento e l'edificazione del brutto oltre che dell'inutile nell'ambito di un contesto perfettamente già a grandezza d'uomo, e quando dico uomo non si intende un nostalgico modo d'essere incapace di edificare un futuro, semmai, ci si vorrebbe identificare in quell'anima in possesso di quella scintilla/fuoco interiore legata a valori oggettivi ed eterni tesa al raggiungimento di una mèta fatta di Forza e Luce, in ordine con il Cosmos di contro al Caos (metafisico).
Si diceva, quindi, che da un certo momento in poi della storia (non molto lontano da ora) il prometeico fare dell'uomo nuovo ha fatto si che ci si slegasse anche dal concetto di unione alla propria terra ed abitazione perfettamente in simbiosi e rispettosa del contorno naturale.
E comunque non mi risulta che la sicurezza fosse una particolare pippa degli Indoeuropei di Roma (anche se in fase decadente), mentre mi risulta che soprattutto Ottaviano abbia fatto riferimento, per un restauro dello Spirito romano, ai Sacri concetti del Re sciamano Numa Pompilio.
Ora pensiamo ai Nostri Genii Loci.
VALE.
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