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Repressione gialla PDF Stampa E-mail

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La repressione cinese contro i manifestanti tibetani non si placa. Ieri, almeno 39 persone sono state uccise a colpi d’arma da fuoco dalla polizia cinese in due diverse manifestazioni della popolazione tibetana nelle province cinesi di Sichuan e Gansu. Secondo il “Centro tibetano per i diritti umani e la democrazia” e il governo tibetano in esilio, 20 manifestanti sono stati uccisi ad Aba, nel Sichuan, mentre gli altri 19 nella città di Machu, nel Gansu. I 39 morti si aggiungono alle 80 vittime “confermate” delle violenze a Lhasa dei giorni scorsi.
Intanto, ieri il primo ministro cinese Wen Jiabao si è pronunciato per la prima volta su quanto sta accadendo in Tibet. In una conferenza stampa a Pechino, Jiabao ha dichiarato che la polizia non ha sparato un colpo a Lhasa, che l’esercito non è mai intervenuto e che le vittime, tredici il conto ufficiale cinese, sarebbero “pacifici cittadini” che sarebbero stati “bruciati vivi e accoltellati dai teppisti sostenitori del Dalai Lama”. Per Pechino non c’è dubbio: “Vi sono abbondanti fatti e numerose prove che dimostrano come questi incidenti siano stati organizzati, premeditati, ideati e fomentato dalla cricca del Dalai Lama”. Con queste parole il capo del governo cinese ha rotto il silenzio stampa, aggiungendo che “il loro comportamento dimostra che tutte le loro dichiarazioni sul fatto che non stanno perseguendo l’indipendenza, ma il dialogo pacifico, altro non sono che bugie”. Per Jiabao sono menzogne “le affermazioni secondo cui il governo cinese è impegnato in un genocidio culturale”. Alle accuse di aver isolato il Tibet, negando l’accesso ai giornalisti stranieri e quindi la libera circolazione dell’informazione, il primo ministro cinese ha ipotizzato che i rappresentanti dei mass media esteri siano ammessi nella regione himalayana: Prenderemo certamente in considerazione la possibilità di favorire l’ingresso in Tibet per i media stranieri”, ha dichiarato Jibao ai giornalisti, senza aggiungere quando questo potrà accadere. Quanto alla possibilità di un dialogo diretto con il Dalai Lama, Wen ha dichiarato che “la nostra posizione originale resta invariata”. Aggiungendo che “dal momento in cui il Dalai Lama è disposto a rinunciare alla cosiddetta ‘ indipendenza del Tibet’ a nostra porta è aperta”.
Il Dalai Lama ha risposto immediatamente alle forti dichiarazioni di Pechino in una breve conferenza stampa a Dharmsala, in India. La guida spirituale si è detta pronto a dimettersi se le violenze in Tibet continueranno ad andare fuori controllo, e ha quindi spiegato di essere rimasto in silenzio finora, ma di aver poi avvertito la “responsabilità morale” di parlare. Il Dalai Lama, in esilio in India dal 1959, ha negato le accuse cinesi. “Indagate approfonditamente, se volete iniziare le indagini da qui sarete i benvenuti”, ha detto. “Controllate in nostri vari uffici. Possono esaminare il mio polso, le mie urine, il mio sgabello, tutto”.
Incessante è la propaganda cinese per nascondere le prove della propria responsabilità su quanto accaduto nei giorni scorsi. Le televisioni e i notiziari cinesi raccontano soltanto il terrore dei “poveri immigrati” di etnia Han ritrovatisi bersaglio delle masse tibetane. Le immagini, grazie a sapienti montaggi e a esperti commentatori, accusano le tuniche arancioni di aver attaccato la polizia a colpi di pietra, bruciato i negozi cinesi e linciato chiunque non parli la loro lingua.
Tutto questo perché la Cina non si può permettersi di sbagliare ad appena cinque mesi dell’apertura dei Giochi Olimpici di Pechino, che dovranno mostrare al mondo non solo l’alto profilo internazionale del Paese, ma anche un’immagine di “democrazia” e “unità nazionale”. Infatti, il primo ministro Jiabao, nel corso della sua conferenza, ha denunciato che la Cina è vittima di una congiura internazionale organizzata con la complicità del Dalai Lama e dei suoi accoliti per defalcarle l’onore di ospitare le Olimpiadi. “Volevano istigare il sabotaggio del Giochi olimpici per raggiungere il loro indicibile obiettivo”, ha così dichiarato sostenendo che le Olimpiadi non dovrebbero essere politicizzate.
A questo proposito, il presidente del Parlamento europeo, il popolare tedesco Hans-Gert Poettering, in un’intervista all’emittente radiofonica tedesca “Deutschland Funk”, ha dichiarato, in contro tendenza con altri leader Ue, che “i leader politici che hanno intenzione di partecipare all’inaugurazione delle Olimpiadi in Cina dovrebbero pensarci bene, alla luce di quanto sta accadendo in Tibet”.
Sulla proposta di boicottare i Giochi olimpici il ministro degli Esteri italiano si è pronunciato ieri, nella trasmissione “28 Minuti”, evidenziando “che questo è un tema da discutere in sede europea. Non ci può essere un dibattito confuso o improvvisato e poi dobbiamo confrontarci con le autorità e organizzazioni sportive. Mi è sempre stato perplesso la strumentalizzazione politica dello sport. Le Olimpiadi, proprio perchè attirano l’attenzione di tutta la comunità internazionale sono anche una straordinaria opportunità per manifestare le rivendicazioni dei diritti”. D’Alema si accoda quindi a chi ha espresso scetticismo sull’arma del boicottaggio. Gli interesi in ballo sembrano essere troppo forti anche per chi, a suo tempo, autorizzò i bombardamenti Nato sulla Serbia sulla base delle rivendicazioni indipendentiste degli albanesi del Kosovo. Il Tibet, per D’Alema, è ancora troppo lontano.
Le proteste tibetane, non sfidano semplicemente il concetto d’unità costruito minuziosamente da Pechino, ma focalizzano l’attenzione internazionale sulle promesse incompiute della Cina verso le sue minoranze e sull’uso continuo dell’intimidazione e della soppressione contro ogni forma di dissenso. Ciò che maggiormente preoccupa i leader cinesi è il rischio che la questione tibetana possa influenzare il controverso referendum e voto presidenziale a Taiwan, che la Cina considera una provincia rinnegata. Infatti, il 22 marzo, gli elettori dell’isola, andranno alle urne per decidere se sostenere o meno il Partito progressista democratico per l’indipendenza attualmente al governo, nel suo tentativo di entrare a far parte delle Nazioni Unite. Allarmanti sono le dichiarazioni fatte da Ma Ying-jeou, candidato alla presidenza di Taiwan, che ha dichiarato che “se la Cina continua a usare violenza nei confronti del popolo tibetano e se la situazione peggiora, se dovessi diventare presidente non escluderei l’ipotesi di non inviare la delegazione di Taiwan ai Giochi”.

19 marzo 2008 da www.rinascita.info

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