Arte contemporanea: un grande bluff

18 Dicembre 2014

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Da Rassegna di Arianna del 12-11-2014 (N.d.d.)

 

Le domande che sempre più spesso attanagliano la mente del pubblico in un museo di arte contemporanea davanti all’incomprensibilità di un’opera, suonano più o meno in questo modo : “Ma cosa vuol dire?” oppure “ Ma che senso ha?”, o addirittura “ Ma ci stanno prendendo in giro?”, cui segue di norma un finto convincimento di validità imposto soggettivamente in modo cosciente per evitare magari di passare per incolti o chiusi di vedute. Ma ora, dinanzi agli ultimi mostri sacri (solamente mostri e per niente sacri) come “ Pig Island ” dell’americano McCarthy, gli escrementi giganti di Cattelan o lo squalo di Damian Hirst, accettare in silenzio questa spazzatura come “arte” non è più possibile. La logica che si nasconde dietro il successo di queste eresie che caratterizzano la nostra epoca non-artistica si identifica in questa affermazione di Angelo Crespi: “L’opera vale perché costa; non costa perché vale”. L’oligopolio appartenente alla classe dei nuovi mercanti d’arte è tenuto in piedi proprio da questa distanza tra fruitore e artista, ormai divenuti celebrità, resa ancora più marcata dall’incomprensibilità delle opere, le quali non fungono più da medium tra le due parti, ma da oggetti di elezione per gli uni e causa di straniamento personale ( quasi un sentimento di miseria culturale) per gli altri.

Il maggior distacco tra Arte e estetica ( da non confondere con la “bellezza” intesa come “grazioso”; una vera opera d’arte può rappresentare anche il mostruoso con sublime bellezza, per esempio la pala infernale di Bosch, la “Medea” di Caravaggio o rappresentazioni più complesse come le tragedie greche) possiamo constatarlo nella nostra epoca dal momento che la fruizione di queste “opere d’arte” si basano su un tipo di contatto “emotivo” diverso rispetto al passato. Questi “sgunz”, come li definisce Crespi, fanno leva sulla quantità di trasgressione che riescono a trasmettere; ma questa trasgressione (dal latino transgredi, andare oltre) non fa riferimento a null’altro se non a sé stessa: è la sua carta vincente. La trasgressione del realismo di Courbet ad esempio (come nell’ “L’origine del mondo) era volta a sorprendere il pubblico e farlo riflettere nella partecipazione al soggetto rappresentato, oltre a far parte di una volontà artistica personale che coincideva con la volontà di indagare e analizzare la realtà. La trasgressione delle opere contemporanee si risolve nella sua messa in scena; la trasgressione è la loro validità artistica, giocata, per riprendere ancora Crespi, “ tra sorpresa e ribrezzo”.

Ma oltre a questa caratteristica, l’opera d’arte della nostra epoca ha perso la sua radice artigiana che ne caratterizzava la sua creazione, custodita anche dalla sua etimologia latina: ars, tecnica. In effetti l’artista, in passato, era custode di un sapere pratico, a tutti gli effetti tecnico, che segnava il valore dell’opera; gli artisti di oggi (mi riferisco sempre a queste stars che cavalcano l’onda del mercato) si vantano di trasmettere un messaggio, per moda ormai quasi sempre sociale, per cui l’approccio visivo ha perso di importanza. Il paradosso è che la storia dell’arte insegna che in tutte le epoche l’artista ha raffinato continuamente la sua tecnica per cercare di trasmettere, attraverso l’impiego di questa, un contenuto il più efficacemente possibile; l’arte contemporanea invece ha distrutto la tecnica, l’antico artigianato, per far posto ad un utilizzo eterogeneo e spesso grottesco di materiali e oggetti – che oscilla tra l’accumulazione o una riduzione al minimo della materia – che danno vita ad “opere” dai contenuti indecifrabili. Dunque volendo riassumere: “l’arte di un tempo era difficile da fare, facile da capire; oggi al contrario, è facile da fare, difficile da capire” (Angelo Crespi in un’intervista in merito al suo saggio Ars Attack). Rispondendo questa dunque ad invitanti richiami economici, il Mercato dell’arte ha dato vita a nuove personalità che costellano questo ambiente di lusso quali organizzatori, curator, giornalisti, fotografi e via dicendo, mentre l’opera d’arte stessa si è trasformata in un evento, nel quale l’esposizione di questa viene legittimata dal contesto e dall’ambiente in cui viene presentata. Le vite degli artisti degli anni duemila impazzano sulle riviste e nei servizi televisivi in cui i nuovi dandy, in interviste da migliaia di dollari, raccontano il loro genio a trecentosessanta gradi ( spesso il pittore è anche video maker, architetto e scrittore), gli impegni sociali ( non può mancare la componente anti-bellica ed ecologista) e inneggiano alla libertà e adorano il loro modo di essere anti-convenzionali.

Infine è da sottolineare la progressiva infiltrazione del ludico e del giocoso nel mondo dell’Arte. Questa tendenza ha visto la luce, seppur in modo sottile, con la Pop Art. Questa corrente della metà del ’900 ha innanzitutto rivoluzionato lo statuto degli oggetti nell’opera d’arte, i quali mentre prima, come spiegava già negli anni ’70 Baudrillard, assumevano una funzione simbolica o decorativa fino ad una rappresentazione in chiave parodistica nel Dadaismo e nel Surrealismo, con la Pop Art hanno assunto una funzione straordinaria: sono diventati autonomi. Perché una scatoletta di pomodoro rappresentata su una tela bianca ha avuto tanto successo? Perché il pubblico riconosceva quell’oggetto dal momento che occupava un posto nella sua quotidianità. Ed è proprio qui il punto. Questo meccanismo di riconoscimento è stato il punto di forza della Pop Art, proprio perché aveva una sua sfumatura ludica, giocosa in cui lo spettatore era chiamato a riconoscere l’oggetto in questione. Da ciò deriva il successo delle serigrafie della Marilyn di Warhol e di quadri simili, davanti alle quali bisognava riordinare la realtà rappresentata con questo gioco di sovrapposizioni, diffrazione delle immagini e l’utilizzo improprio dei colori per infine approdare alle opere a noi contemporanee alle  quali il fruitore addirittura partecipa, giocando con l’opera stessa.

Dunque l’arte ha smesso di essere portatrice di senso e di essere un mezzo per parlare di “altro”, ma si è piegata su sé stessa e sulla potenza economica che custodisce. Ma soprattutto non è più un’ arte popolare: la partecipazione emotiva che un’opera d’arte presuppone come naturale ha ceduto il posto a questa distanza tra individuo e artista, il quale ha fatto di questa separazione il segreto del suo successo.


Andrea Chinappi 

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