Appartenenza o libertà?

28 Maggio 2015

 

Da Il Ribelle, quotidiano on line, del 12-5-2015 (N.d.d.)

 

Se non fosse per i sempre più frequenti delitti passionali, la gelosia risulterebbe ormai un oscuro retaggio dei tempi andati. Eppure, chissà che non sia proprio anche la “crisi della gelosia” a far sì che tanti, troppi individui siano portati a compiere omicidi efferati.

Quante volte si sente dire di qualcuno che è geloso? Spesso, e non ci sarebbe certamente nulla di strano, se non fosse per quella malcelata inflessione spregiativa con cui si apostrofa il tale o la tale; l’epiteto, infatti, generalmente sottintende indicare una persona insicura, paranoica e abbastanza retrograda, che nel nostro attuale e progressista modus vivendi stona parecchio.

Gli atroci e assurdi delitti passionali tra fidanzati, sposi o amanti richiamano, mutatis mutandis, certi altri crimini con i quali in realtà nulla hanno a che spartire, ma il cui comune denominatore è rappresentato da una follia tanto inaudita quanto improvvisa. Torna ancora alla mente il caso di Erba, in cui una coppia già attempata e apparentemente insignificante ha fatto terribile strage di alcuni condomini, tra cui un bimbo, per via dei ripetuti e, a suo avviso, insopportabili rumori che facevano. Una motivazione ridicola, per un massacro di tal fatta.

È evidente che c’è qualcosa che non torna e che non si possono giustificare tali atti limitandosi a dire che tutte queste persone, accomunate dal raptus omicida, sono semplicemente impazzite da un momento all’altro e da un giorno all’altro. Sembra, invece, esserci un male diffuso che cova a lungo, in questi soggetti – e non l’inverso – di cui loro stessi non sono coscienti.

Se le esistenze dei peggiori assassini fino al giorno dell’eccidio sono state tanto irreprensibili e ordinarie da risultare quasi banali, allora forse bisogna spostare l’attenzione altrove, verso un contesto di maggiore portata rispetto a quello prettamente individuale, in cui erroneamente si cerca sempre l’origine del fatto.

Contrariamente a ciò che pensano i lungimiranti esperti del settore, potrebbe essere, invece della vita privata con i suoi piccoli torti e le sue brevi gioie, esattamente il suo risvolto a fornirci una nuova chiave di lettura per svelare l’arcano; potrebbe essere, a ben pensarci, ancora l’individualismo sfrenato e autoreferenziale in cui questo tipo di società ci ha precipitati a condurre alcuni di noi a una bruta bestialità o, molto peggio, a un non senso del nostro agire.

A mancarci, non sono le brevi gite fuori porta, le obbligate uscite del sabato sera o l’immancabile derby del cuore – la maggioranza delle persone di cui si va parlando è “socialmente attiva” – bensì sempre quel resto, che è il tutto di cui noi siamo parte e che non ci lega agli altri solo per questioni professionali, attraverso un contratto, o per occasionali simpatie in cui siamo noi a dettare tempi e modi, a nostro uso, consumo e piacimento. Mancano tante, tantissime cose, oggi, ma quello che sopra ogni cosa ci è stato tolto, o abbiamo permesso che ci togliessero, è l’appartenenza a uno stato d’essere che si manifesta attraverso una fitta corrispondenza con quanto ci circonda: la comunità.

Ci hanno offerto tutte le libertà possibili e immaginabili – di gran parte delle quali una persona mediamente raziocinante non saprebbe proprio che farsene – a patto però che ci lasciassimo disinnescare, a patto che rinnegassimo usi e costumi, etica ed estetica, geografie e ormai persino la nostra appartenenza sessuale. Con un lavorio certosino, ci è stato tolto tutto ciò che ci caratterizzava, che ci creava sì dei limiti e finanche i tanto vituperati tabù, ma era anche l’unica nostra sostanza contro l’indifferenziazione cui questo “ordine totalitario e riduzionistico” vuole condurci.

Nell’ambito di quel femminismo redentorio ed egualitario, è stata la libertà (o liberalizzazione?) sessuale, intesa come alto bene da perseguire, a mettere in discussione le ontologiche differenze fra i sessi, e dunque i rispettivi ruoli. Quel ’68 ha fatto, forse involontariamente, da apripista all’ascesa del mercato sociale, il capitalismo, che, pur muovendosi su un piano meno ideologico, e proprio per questo più pernicioso, non ha fatto altro che estendere e realizzare i propri scopi – l’illimitato e l’indistinto senza frontiere e su tutti i fronti – sul piano sociale, religioso e certamente individuale.

Come ogni forma di schierata e specifica appartenenza che faccia da freno inibitore all’indistinzione odierna e al piacere immediato, anche il sentimento viscerale e vitale della gelosia è stato intenzionalmente rimosso, senza però prima considerare gli eventuali e micidiali effetti collaterali che una tale “mutazione genetica” può comportare, a lungo andare, specie negli individui più deboli.

Se non torneremo ad abitare la nostra specificità e ad appartenere ai nostri confini – gli unici, che ci permettono una prospettiva alta e trascendente – non ci resta che aspettare bovinamente la notte più buia, in cui tutte le vacche saranno grigie.

 

Fiorenza Licitra 

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