Gang di latinos

18 Giugno2015

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Da Il Ribelle, giornale on line, del 17-6-2015 (N.d.d.)

 

A mente fredda? Benissimo. A mente fredda. E tuttavia senza dimenticare nemmeno per un attimo che la freddezza non può significare distacco, indifferenza, rifugio – anzi fuga – in un raziocinio astratto, che crede di potersi permettersi tutto perché in fondo non si assume la responsabilità di nulla.

Il fatto di cronaca lo conoscerete di sicuro ed è la gravissima aggressione a un capotreno delle ferrovie Nord di Milano, compiuta la settimana scorsa da un gruppetto di giovani criminali originari dell’America Latina ma ormai trasferitisi da tempo in Italia. Di fronte alla minaccia della multa per aver viaggiato senza biglietto, uno di loro ha estratto un machete (un machete!) e ha quasi tagliato di netto un braccio al malcapitato, mentre un collega di quest’ultimo se l’è cavata con una decina di punti di sutura alla testa.

Le indagini, se non altro, sono state immediate quanto efficaci: due membri della banda sono finiti in manette di lì a poco e un terzo è stato arrestato nei giorni successivi. Ad accomunarli, oltre alla provenienza sudamericana, l’affiliazione alla MS-13, la Mara Salvatrucha 13, che è una gang numerosissima e di estrema brutalità, nata inizialmente a Los Angeles per iniziativa di emigrati salvadoregni fuggiti dalla guerra civile divampata tra il 1980 e il 1992 ma ormai diffusa in molti altri Stati (tra cui, ovviamente, lo stesso El Salvador) e aperta ad altre etnie. Un sodalizio criminale con vincoli associativi terrificanti e inderogabili che è noto da parecchi anni, tanto è vero che l’FBI ha istituito un’apposita task force già nel dicembre 2004, e di cui è altrettanto nota la presenza nel nostro Paese, specialmente su un asse che va da Genova a Milano, al pari di altre gang di latinos.

Detta in maniera più semplice, le autorità “competenti” sanno benissimo di averli qui e non possono certo ignorarne la pericolosità, che del resto si è già manifestata in centinaia di episodi di violenza. Ma che finora – e neanche dopo quest’ultimo episodio si è parlato di un mutamento di approccio – è stata trattata con metodi ordinari, ossia perseguendo i singoli reati invece di mirare alla repressione/eliminazione del fenomeno nel suo insieme.

Il vizio è il solito: limitarsi a coesistere con i problemi anziché risolverli, nel presupposto che per tenere la situazione sotto controllo siano sufficienti le leggi già esistenti e i normali strumenti operativi. Ma il punto oscuro, in effetti, è proprio in questa idea di “tenere la situazione sotto controllo”, che nasconde un inganno decisivo. A prima vista, infatti, l’espressione fa pensare a una vigilanza che sia finalizzata al mantenimento della piena legalità, ossia alla tutela della generalità dei cittadini, mentre a pensarci meglio il suo significato è assai diverso: ciò che si vuole mantenere è un livello di illegalità accettabile, che per quanto nocivo alle persone qualsiasi non interferisca con i piani dell’establishment.

Ancora una volta, un avvicinamento per nulla casuale alla realtà statunitense. Dove la patologia delle gang esiste da decenni ed è ormai divenuta parte integrante dello scenario sociale, con la polizia che si accontenta di arginare una criminalità che è a suo modo endemica e che serve, tra l’altro, a soddisfare l’enorme richiesta di stupefacenti da parte del mercato. Vale a dire, ovviamente, da parte di quei milioni e milioni di persone che devono trovare nella droga, o in altri stordimenti sia legali che illegali, la valvola di sfogo alle loro vite insensate.

L’errore che va assolutamente evitato, dunque, è guardare ad avvenimenti come quello di Milano con il metro (o il centimetro…) della cronaca, che registra il singolo evento e lo addebita a singoli responsabili, i quali andranno perciò sanzionati sul piano individuale. La prospettiva va ampliata, cambiandone non soltanto il raggio d’azione ma la natura stessa. Si tratta di mafie, e come per le mafie nostrane gli specifici reati sono i sintomi di un’infezione assai più grave, più o meno assecondata da chi governa.

Lo Stato che lascia fare non è solo disattento e incapace. È connivente.

 

Federico Zamboni

  

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