Piccoli numeri

25 Luglio 2015

 

 L’argomento anarchia troverà in questi anni a venire, rinnovato vigore e spazio tra chi si interessa alla condizione umana, anche soltanto dal punto di vista sociale.

Le precisazioni di Francesco Scatigno (Anarchia e Potere, 210715 giornaledelribelle.com) sono molto utili e ancora necessarie per chi, intellettualmente onesto, voglia liberarsi dalla grottesca identità attribuita dai benpensanti al pensiero anarchico: ognuno fa quel che vuole.

Oltre alle sue precisazioni forse è altrettanto necessario non tralasciare due argomenti, a mio parere nodali per intellegere profondamente, opportunamente, la prospettiva anarchica:

. I grandi numeri.

. L’assunzione di responsabilità.

I grandi numeri.

Per quanto questo concetto e le sue peculiari dinamiche, siano al momento poco considerate e diffuse, nonché forse taciute, nel dibattito politico-sociologico, nei nostri argomenti è sostanziale.

Chi ha riconosciuto che ogni ambito produce la sua verità definitiva, quindi le sue leggi, le sue libertà, i suoi vincoli, troverà ovvio condividere che i grandi numeri - in quanto ambito a loro volta - comportano ed implicano verità, leggi, libertà e vincoli. In pratica, le biografie delle piccole comunità si sviluppano intorno a dinamiche differenti da quelle tipiche delle grandi comunità.

La necessità della delega è una di queste; la creazione di lobby di potere… la specializzazione del lavoro… la divisione in classi… il valore della meritocrazia… quello dell’autoreferenzialità… la coercizione come pratica condivisa… la necessità di ideologie, la definitiva valorizzazione dell’avere… la coltivazione della forza… il furto… le fazioni... la sopraffazione… la pubblicità… la prevaricazione della tecnica... dell’idea razionale di una prospettiva oggettiva e definitiva con la quale ordinare il mondo... l’accumulo... , sono alcune altre.

Tutte, tendono a non verificarsi con la riduzione dei numeri. E Scatigno lo sa: “Questo tipo di organizzazione è possibile solo su piccola scala”.

L’anarchia dunque, consapevolmente o meno, allude ad una possibilità sociale e umana esclusivamente per piccoli numeri. La sua utopia e verità è qui. Perché pare effettivamente possibile organizzarsi in piccoli numeri. Tuttavia la difficoltà, nonostante la banalità del progetto, si deve al traino ideosincratico dei grandi numeri. È lui che lo mantiene utopico.

L’assunzione di responsabilità.

Nei piccoli numeri sussistono le condizioni improbabili nei grandi. Una di queste, fondamentale, è l’assunzione di responsabilità… di tutto. Come la madre che, nel ritenersi responsabile delle azioni del figlio, compie contemporaneamente sia il suo miglior gesto d’amore che il miglior gesto formativo per realizzare uomini forti, compiuti, centrati sul proprio talento, capaci di riconoscere come, dove e quando realizzare la propria creatività, emancipati quindi dalla liquidità baumaniana, idonei a condurre una vita ottimale per sé e per il prossimo, capaci di accettare ciò che è, strutturati per riconoscere l’abisso dietro le pretese e l’attribuzione di colpa, così chi, per consapevolezza raggiunta, si assume la responsabilità di ogni evento della relazione, famiglia, ambiente e comunità, tenderà a perpetuare un contesto, un ambito dove il governo verticale, la coercizione, l’amministrazione, la specializzazione, l’informazione, eccetera, non avranno terreno per essere.

Affinché l’assunzione di responsabilità elevi il suo rischio di realizzare un ambito a standard più umano, è necessario ricordare che quella “consapevolezza raggiunta”, si riferisce in particolare al ritenersi espressione di un Tutto e non, come siamo culturalmente indotti a credere, singoli individui, cresciuti ed ingrassati a cucchiaiate di libero arbitrio, separati dagli altri, dalla natura, dalla storia passata e futura.

Nei piccoli numeri ci si muove nel rispetto del bene della comunità senza bisogno di leggi in quanto non c’è separazione tra l’io e l’altro, in quanto comportamenti e scelte sono compiuti secondo il modo della relazione, un modo non massificabile né meccanicistico, bensì fondato sull’ascolto, il rispetto, l’attribuzione di dignità. È questa l’anarchia compiuta.

A quel punto, diviene evidente quanto la norma impositiva, coercitiva, impersonale, meccanicistica, così necessaria nei grandi numeri, non solo sia sempre alienante, ma neppure scaturisca come esigenza.

Nei piccoli numeri ci si muove valorizzando la dimensione sentimentale oltre a quella intellettuale, dunque anche ciò che si sente oltre a ciò che è razionalizzato. Qui, i canali delle relazioni sono anche empatici e sempre estetici, non solo razionali e d’interesse.

Tutto ciò, teoricamente - lo si sente alludere - sarebbe possibile anche nei grandi numeri. Tuttavia, la mente (Gregory Bateson) di ogni entità organica - fosse anche una relazione tra entità stesse - sviluppa dinamiche sue peculiari. Forse per questo la corruzione non solo non può essere estirpata dalle comunità a grandi numeri, ma tende a divenire fisiologica ed accettabile anche da parte di chi non la tollerava. Quest’ultimo, se passa dal suo piccolo e puro ambito politico ad uno più grande non sarà tendenzialmente in grado di rispettare i suoi stessi valori etici e sarà invece fortemente indotto ad adagiarsi all’ordine del nuovo ambito dove le dinamiche, le verità, i valori sono altri e nuovi. Ugualmente si può dire in merito ai tributi per i servizi sociali. Ognuno di noi sa che appena si verifica la possibilità invece dell’interesse comune, scegliamo di prediligere quello individuale. Qui, il nostro io non corrisponde a quello della comunità. Solo nei piccoli numeri si può realizzare l’alchimia dell’utopia anarchica. Solo nei piccoli numeri, la verità sintetizzata da Max Stirner, l’interesse individuale la spunterà sempre su quello ideologico, del tutto idonea a rappresentare le dinamiche proprie dei grandi numeri, non ha più humus di sopravvivenza.

Green anarchy.

Gli anarchici, anzi, parte di essi, sono forse stati tra i primi a riconoscere che non è possibile occuparsi del bene dell’uomo senza tralasciare di un solo punto il bene della Terra.

È un’idea tanto rivoluzionaria quanto costretta a fare i conti con i grandi numeri, dove gli interessi parziali sono tanti e sufficienti per le guerre e per non privilegiare la Terra.

Parlare di anarchia oggi, con intento politico-culturale, non dovrebbe a mio parere tralasciare di omettere queste sue tre dimensioni: piccoli numeri, assunzione di responsabilità, consapevolezza di parità con gli altri esseri senzienti.

Come accennato, nei piccoli numeri, l’individuo non è un io separato dalla comunità in cui realizza la sua vita.  Ma è necessario fare presente altri due aspetti da riconoscere come parte integrante di quanto detto finora.

. L’esperienza non è trasmissibile.

. La storia tende a ripetersi.

L’esperienza non è trasmissibile.

Trattati, studi, scuola, convegni e istruzioni impartite sono istituzioni valorizzate e autoreferenziali che la società a grandi numeri considera imprescindibili per la propria evoluzione. Come se fosse convinta che l’esperienza, la consapevolezza sia trasmissibile. Quelle istituzioni sono tendenzialmente non necessarie nei piccoli numeri, dove invece si cresce imparando il necessario alla comunità senza bisogno di intellettualizzare. Nei piccoli numeri, non saranno utili se non marginalmente, al mantenimento della salute, della comunità, della sicurezza. Lo standard materiale, spirituale, creativo e quindi pieno, non si organizza né pianifica amministrativamente. Le consapevolezze possono essere descritte in ambito razionale ma non possono essere trasmesse attraverso quel canale perché l’uomo non è solo ratione, perché la comunicazione e l’apprendimento avvengono per ri-creazione, diversamente è semplice, volatile informazione. Valori e consapevolezze vanno quindi ri-creati ad ogni generazione. Ogni generazione ne ha il diritto. Senza fare i conti con questi aspetti ci si trova a citare che la storia insegna, ma anche ad accorgersi che non abbiamo imparato niente.

Il ciclo della Storia.

La storia in piccolo e in grande è espressione dei sentimenti. Questi appartengono a due soli capigruppo, uno di attrazione e uno di repulsione. Attraverso le loro dinamiche altalenanti, vincolate agli interessi di parte e succubi del concetto di sopraffazione e separazione dall’altro, il ciclo conflittuale della storia tende a perpetuarsi. A tavolino crediamo di avere imparato da lei, a caldo siamo pronti a commettere azioni e pensieri dei quali ci pentiremo.

Si può dire che l’uomo non conosca evoluzione. Quella sempre citata è semplicemente tecnica. Affinché ne possa sussistere una anche umana, pare necessario interrompere quel ciclo perpetuo. Uno dei suoi nodi fondamentali a questo proposito è, nuovamente, la concezione che si ha di sé, del mondo, degli altri. Se l’individuo si avverte come espressione della natura tenderà a riconoscere nel prossimo un sé in altro tempo e altra forma, tenderà a riconoscere la vita in tutti gli esseri senzienti e quindi a comportarsi nei loro confronti con scelte non antropocentriche, rispettandola non fosse che per poter chiedere e volere di essere rispettato. Quell’individuo avverte che non è lui a portare i sentimenti, ma sono i sentimenti eterni che si esprimono storicamente attraverso noi.

Diversamente, c’è poco da aggiungere perché già ci troviamo nel diversamente. Ci consideriamo infatti legittimati a sopraffare gli altri, la natura, gli animali. Non abbiamo i mezzi per vederci come terminali della natura, portatori di vita. Siamo inetti a riconoscere la dimensione non materiale che se individuata porta armonia e bellezza quotidiana. Ci identifichiamo in un nome, in un ruolo e tentiamo anche a gomitate di far valere i nostri poteri sugli altri. Non siamo in grado di ascoltare, di sfruttare le parti sottili dell’intelligenza corporea, non sappiamo guarire né riconoscere da dove nascono le malattie, crediamo che eliminare il sintomo sia il meglio che si possa fare. Così come crediamo che mangiare debba essere solo un piacere e un diritto, restando perciò lontani, infinitamente lontani, dal suo vero significato spirituale e di benessere.

Il messaggio anarchico non dovrebbe avere alcun intento teleologico, pena il restare vincolato a logiche positivistiche, un ossimoro strutturale. Tuttavia si può evincerne la potenziale trascendenza nelle sue tendenze a rompere il ciclo della storia, almeno nei piccoli numeri.

 

Lorenzo Merlo

Commenti
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fosco2007@alice.it
admin (Super Administrator) 25-07-2015 15:29

Qui il pensiero anarchico è chiarito più in una dimensione esistenziale che in quella immediatamente politica. L'approccio è stimolante.
Misopickle (Registered) 02-08-2015 12:57

Non ho mai rinunciato, tra i miei sogni nel cassetto, all'utopia anarchica. Per me ha molto in comune con l'idea del Buon Selvaggio di Rousseau, e poi col Walden di R.W.Emerson, con Epicuro, Celine, Diogene, E. Pound, G.Ohsawa e molti altri sognatori romantici, quasi sempre sconfitti, sconfessati e perseguitati. Un vero punto d'onore ed orgoglio per la loro memoria nelle società bacate di Potere maligno e terminale, come in particolare la presente società mondiale. Ebbene,l'applicazione realizzabile dell'ottimo articolo, ancorchè annacquata di capitalismo borghese e con ovvi limiti, ma pur sempre un tentativo nella giusta direzione ci viene dalla PICCOLA SVIZZERA che a livello cantonale si regola ed autogoverna, come pure fa su scala mondiale infischiandosene dei blocchi contrapposti, delle Nazioni Unite e quant'altro. Ragion per cui sono miolto stimolato ed eccitato grazie a questa visione, che condivido.
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