Elogio del provincialismo

1 Ottobre 2015

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Da Rassegna di Arianna del 28-9-2015 (N.d.d.)

 

In un tempo in cui migrare è necessario, specialmente in direzione di enormi metropoli dal nome suggestivo (Londra, New York, Sydney), elogiare il provincialismo è impresa ardua e sconveniente. Ardua, perché sembrano esserci davvero pochi argomenti in difesa di chi nasce, vive e muore nella medesima località di provincia, senza mai varcarne i confini se non per sporadici viaggi lavorativi o di intrattenimento. Sconveniente, perché la melassa culturale e politica nella quale siamo immersi pare remare in senso totalmente contrario rispetto a una pur sana e soddisfacente quotidianità paesana. Dare del provinciale a qualcuno significa ormai declassarlo a persona dotata di scarsa sensibilità, legata a strutture sociali passate e segnata nel modo di pensare dall’angusto paesaggio circostante.

Ma è davvero un luogo così tremendo la provincia? Proviamo a rispondere alla domanda partendo da una ricostruzione più analitica della critica che il mondo moderno le muove. Abbiamo accennato al fatto che tale critica non è limitata al significato fisico e geografico di provincia, ma è centrata su un suo risvolto spirituale e filosofico. Il provinciale, in ultima analisi, eleva la sua terra a orizzonte non solo degli occhi, ma anche del cuore. Come il suo corpo è rinchiuso nei limiti di ristrette coordinate geografiche, così la sua testa è orientata verso principi e stili di vita circoscritti. Scavalcare i confini del corpo, lasciare la provincia e andarsene altrove, sembrerebbe condizione necessaria (ma non sufficiente) per abbattere quei muri dell’anima che dividono il provinciale da una condizione di apertura al mondo, e da uno stile di vita meno rigido e coartante.

Dunque il primo caposaldo di questo modo d’intendere il provincialismo è il seguente: l’uomo bloccato fisicamente è bloccato anche mentalmente. I limiti che s’impongono al corpo durante questa vita, in una compenetrazione automatica e necessaria, sono gli stessi che s’impongono al cervello e viceversa. Se vivi a Ponte Pattoli non potrai mai possedere un gusto, una sensibilità, un’intelligenza pratica e sociale paragonabile a quella posseduta da un cittadino di Sydney che però è mezzo svedese e ha studiato a Singapore dopo un’infanzia vissuta negli Stati Uniti. È un ragionamento ricorrente e noto.

Ma la critica moderna al provincialismo si spinge ancora più avanti, predicando un secondo caposaldo. Abbiamo detto infatti che non basta vivere a Sydney per elevarsi socialmente sul cittadino di Ponte Pattoli ma occorrono anche delle prerogative legate alle esperienze passate, in particolare alla dose di “culture” che si è ingerita precedentemente. Per chi vede la provincia come terra di una nuova barbarie, l’ampiezza o la capienza della città in cui si abita non basta di per sé a immunizzare dai veleni contagiosi di questa barbarie. Contano anche gli spostamenti che si sono fatti, le tappe percorse durante la vita. Più l’uomo si muove cambiando affetti, lingue, culture, abitudini, città; più diventa uomo civilizzato, uomo progredito, in una parola “uomo del suo tempo”. C’è un’occulta idea di progresso ed evoluzione insita in questa forma esaltata di mobilità purificatrice.

Da dove iniziare, a questo punto, dovendo tessere un elogio del provincialismo? Semplice: dalla confutazione di questi due capisaldi.

Innanzitutto, l’esperienza dimostra che i costumi locali possono essere rigidi quanto i costumi metropolitani possono essere vuoti. Parafrasando la metafora tanto cara ai cosmopoliti, se è vero che l’orizzonte locale è chiuso ai lati, è anche vero che l’orizzonte metropolitano è chiuso sopra. Orizzontalmente, la vista del provinciale è limitata. Il provinciale inquadra il mondo alla luce di alcuni schemi che non possono essere alterati, pena la perdita del buonsenso e della rettitudine. Ma a ben guardare, posti tali limiti, il suo sguardo si eleva dalla terra al cielo, senza incontrare limite alcuno. Il suo orizzonte è stretto ai lati; ma, in verticale, si estende fino all’infinito.

Per contro, l’orizzonte metropolitano si apre a trecentosessanta gradi. L’uomo di mondo può girare su sé stesso mille volte, e abbracciare molteplici schemi e altrettante culture. Ma il suo orizzonte è piatto, è una linea sottile e schiacciata che può muoversi soltanto in tondo e mai in verticale. In sintesi, secondo una più corretta ricostruzione, il paradigma locale è un paradigma preciso, mentre il paradigma metropolitano consiste nel non avere paradigmi. Il primo ha una sua spiccata identità, il secondo le ha tutte e nessuna. Il primo ha un orizzonte smilzo, il secondo ha un orizzonte nano.

Il cittadino di Ponte Pattoli potrà avere forse qualche difficoltà in più ad acquistare con la carta di credito o a orientarsi con gli orari dell’autobus rispetto al suo collega di Sydney. Potrà forse maturare anche un certo tipo d’intolleranza sgradevole nei confronti delle cose che non vede di buon occhio, fino ad assumere atteggiamenti inquisitori e pedanti, bollati immediatamente come rozzi e provinciali dai suoi amici cosmopoliti. Ma certamente non diventa pazzo. Avrà sempre un ottimo olfatto a guidarlo, e una mistica irreprensibile che non si pone troppe domande ma di risposte se ne dà a sufficienza. Il cosmopolita, invece, avvolto nei fumi esotici della velocità e del sincretismo, è un tipo che si pone un mucchio di domande e si dà sempre le stesse risposte: aprirsi, tollerare, progredire, muoversi, diffondere. I suoi ritornelli verbali assomigliano a quelli di un matto. Eseguendo alla lettera i suoi capisaldi, egli non potrà che saltare di città in città, allargare i suoi orizzonti, rinnegare le sue abitudini, cambiare le sue amicizie, abbandonare la sua famiglia, prendere tanti aerei, dormire in tante case, salutare le sue fidanzate. Peraltro, questi pochi imperativi che si dà il cosmopolita – aprirsi, tollerare, progredire, muoversi, diffondere – non sono adatti a forgiare una qualche virtù. Se il cosmopolita incontra una persona sgradita, dovrà fare lo sforzo di comprenderla e aiutarla: ma per non più di cinque minuti. Il provinciale, invece, se non sopporta qualcuno, si condanna fatalmente a non sopportarlo per sempre. Quella persona sgradita è l’edicolante dove compra il giornale. Quella persona sgradita è il tabaccaio dove compra le sigarette. Quella persona sgradita è sua moglie. La sua immobilità non gli dà scampo. E la sua virtù si accresce.

Qualunque elogio che si faccia alla provincia dovrebbe partire da qui. Vivere in provincia, al netto di quel che si pensa oggigiorno, non è un freno alla conoscenza del mondo, ma il viatico perfetto per quella stessa conoscenza. Il cosmopolita fa esperienza del deserto, fa esperienza dei grattacieli, fa esperienza della savana, fa esperienza della cucina orientale, fa esperienza delle belve feroci, fa esperienza praticamente di tutto, ma non dell’animale più grandioso: l’uomo. L’uomo in tutta la sua limitatezza, l’uomo in tutta la sua contraddizione, l’uomo in tutta la sua stupenda drammaticità si conosce soltanto stando fermi, e ancor meglio in una piccola realtà, dove c’è scarso ricambio e pochissima concorrenza. Un buon medico, per visitarti la gola, ti dice di star fermo. Un buon insegnante, per spiegarti meglio la lezione, ti chiede di venire nel suo ufficio. E un buon antropologo, prima di intervistare una qualche stirpe di aborigeni, farebbe bene ad intervistare la tabaccaia.

Per il primo caposaldo del cosmopolita, la provincia è una prigione dell’uomo. Noi diciamo che non è una prigione dell’uomo, ma la sua lente d’ingrandimento. Per il secondo caposaldo del cosmopolita, muoversi continuamente equivale in fondo a maturare continuamente. Noi diciamo al contrario che questa maturazione non è progresso, ma appiattimento a uno standard precostituito, a un’ideologia del movimento che assomiglia a un matto che siede su un’altalena convinto di sedere sul pianeta Terra.

Ma l’altalena non è il pianeta Terra. La provincia invece sì.

 

Michele Spina 

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