Socialismo non è sinistra

13 Ottobre 2015

 

Da Rassegna di Arianna del 12-10-2015 (N.d.d.)

 

Secondo un’opinione diffusa il_Quarto_Stato_di_Giuseppe_Pellizza_da_Volpedo e termini «socialismo» e «sinistra» costituirebbero un binomio inscindibile. Eppure storicamente la genesi di questi due concetti è assai diversa.

La tesi secondo la quale la sensibilità socialista sia legata in qualche modo alle dottrine della sinistra è un’idea indotta che risale sostanzialmente all’affaire Dreyfuss, conflitto politico e sociale consumatosi come è noto in Francia alla fine dell’ottocento.

Sino a quel momento, il côté gauche, come lo si chiamava all’epoca, si definiva come il partito del Progresso, della Scienza e della Ragione in opposizione alla «destra», la quale rappresentava tutti coloro i quali si ponevano come obiettivo di restaurare, in toto o in parte, le istituzioni dell’Ancien Régime e il potere temporale della Chiesa Cattolica.

La sinistra si è sempre presentata nella storia come l’unica vera erede legittima dell’Illuminismo, e a questo titolo, come avanguardia più decisa di tutte le modernizzazioni concepibili, sia di carattere tecnologico, economico, politico e morale.

Al contrario la sensibilità socialista ha origini diverse se non opposte. Essa si forma veramente solo a partire dall’inizio del XIX secolo, dapprima attraverso le molteplici lotte degli operai inglesi e irlandesi contro i modi di vita degradati loro imposti dalla prima modernizzazione industriale.

Il socialismo operaio si configura così fin dall’origine come un rapporto eminentemente critico nei confronti della modernità e il suo individualismo devastante e verso quel curioso catechismo industriale che ne è la diretta conseguenza. Non è un caso che il termine «socialismo» sia stato coniato da Pierre Leroux (1797 – 1871) per indicare il contrario dell’individualismo assoluto. Il filosofo torinese Costanzo Preve (1943 – 2013) avanzò la tesi secondo quale lo stesso Marx non fosse affatto un pensatore di sinistra, bensì un tradizionalista, il cui pensiero affondava le proprie radici nella filosofia greca antica quale strumento per criticare la mancanza di un’etica comunitaria all’interno del moderno capitalismo.

Si vede così come il progetto socialista sia filosoficamente orientato, fin dalla sua nascita, dal desiderio che hanno i primi lavoratori moderni di proteggere, contro gli effetti disumanizzanti del liberalismo industriale, un certo numero di forme di esistenza comunitaria che essi intuiscono essere l’orizzonte culturale indispensabile di qualsiasi vita umana degna di questo nome. Ovviamente, tale aspirazione a conservare «un mondo comune», per dirla con Hannah Arendt, non è riconducibile in nessun modo ad una nostalgia nei confronti delle gerarchie sociali dell’Ancien Régime. Il socialismo operaio, essendo prima di tutto una creazione popolare, riprendeva naturalmente, per proprio conto, l’idea moderna di un’uguaglianza universale, badando però bene a darle il contenuto più concreto possibile.

Quella che oggi è chiamata sinistra, non è altro che il risultato di un compromesso storico particolarmente precario sorto in Francia nell’ambito dell’affaire Dreyfuss tra il liberalismo progressista – all’epoca essenzialmente incarnato dal partito radicale – e il movimento socialista ufficiale. Compromesso chiaramente dettato dalla minaccia, a quel tempo quanto mai reale, rappresentata dalle forze clericali, monarchiche e reazionarie.

È questo compromesso storico che costituisce dunque l’evento fondatore della sinistra del ventesimo secolo. Tale accomodamento viene a rompersi definitivamente con gli eventi del maggio del ’68 quando i fondamenti storici della destra clericale, monarchica e reazionaria scompaiono progressivamente in conseguenza del dirompere del capitalismo del consumo.

Una volta che tale instabile configurazione ideologica ha rinunciato a conservare nel suo programma ufficiale la critica radicale del capitalismo moderno essa si è trasformata in una semplice macchina politica destinata a legittimare, in nome del «progresso» e della «modernizzazione», tutte le fughe in avanti della civiltà liberale. Risulta dunque evidente che in tale ruolo la sinistra è infinitamente meglio attrezzata dal punto di vista intellettuale di tutte le destre del mondo.

La «destra» ha infatti la tendenza a difendere la premessa (l’economia della concorrenza assoluta), ma ancora stenta ad accettarne la conseguenza (il riconoscimento delle unioni di fatto, la delinquenza, l’immigrazione ecc…) mentre la «sinistra» tende a operare scelte contrarie. Il merito, se così si può chiamarlo, di quest’ultima fazione politica è quella di rendere immediatamente visibile la complementarietà dialettica dei due versanti dell’accumulazione del capitale, quello dell’economia e quello della cultura.

Oggi più che mai si sente la necessità di rivitalizzare l’ideale socialista non più inteso come lotta di classe o dittatura del proletariato, bensì come common decency (secondo la fortunata formula di George Orwell), ovvero il concetto secondo il quale una vita compiuta non si misura dalla quantità di potere e di denaro che si riescono ad accumulare durante la propria esistenza.

Un socialismo quindi umanistico, comunitario e tradizionale che vada al di là delle vecchie dicotomie obsolete di destra e sinistra.

 

Gabriele Repaci 

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