Irak, una guerra da non vincere

23 ottobre 2007

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E’ convinzione diffusa che in Iraq l’Amministrazione Bush abbia sbagliato i suoi calcoli, passando dall’annuncio di una facile vittoria all’impantanamento stile “nuovo Vietnam”.
In questo senso si è espresso da ultimo nientemeno che l'ex comandante delle truppe americane a Bagdad, il generale Ricardo Sanchez. Secondo il quale il governo degli Stati Uniti sarebbe responsabile di «un piano di guerra catastroficamente sbagliato e irrealisticamente ottimista».
«C'è stata — aggiunge Sanchez, andato in pensione nel 2006 — una palese e sfortunata dimostrazione di leadership strategica incompetente da parte dei nostri dirigenti nazionali». Cioè la banda Bush, Cheney, Rumsfeld.
Critiche pesanti e autorevoli. Tuttavia noi non le condividiamo.
Intendiamoci: Sanchez ha perfettamente ragione se consideriamo la questione dalla sua ottica, che è quella di un militare (e un militare combatte le guerre per vincerle).
Peccato però che Bush&C non siano dei militari. E allora sarebbe il caso di inquadrare le loro scelte in una prospettiva diversa. In fondo, se pensiamo al vero motivo per il quale gli Usa e i loro complici hanno mosso guerra all’Iraq, possiamo renderci conto che un Iraq rappacificato - seppur a suon di stragi delle numerose fazioni che si oppongono all’invasore e al governo fantoccio trincerato nel quartiere americano di Baghdad - forse non sarebbe funzionale alla strategia imperialista yankee.
Innanzitutto verrebbe meno il pretesto che gli americani adducono per giustificare la loro permanenza in Iraq: combattere il terrorismo e salvaguardare la "democrazia". Un bel rischio per chi preferirebbe continuare da un lato a piantonare i giacimenti petroliferi che si è assicurato, e dall’altro a mantenere in un’area strategica una forza militare così consistente.
Gli americani, poi, conoscono molto bene i vantaggi della “strategia della tensione”: un Iraq perennemente destabilizzato e nel quale non è neppure più possibile capire chi combatte o commette stragi e perché, può risultare estremamente utile. Anche all’alleato israeliano. Il pericolo del terrorismo islamico, il nuovo nemico universale, deve essere sempre tenuto vivo.
A queste ipotesi si potrebbe obiettare che le guerre costano, sia in termini economici che di vite umane. Il saldo tra i benefici e gli svantaggi di una simile strategia, dunque, sarebbe positivo?
L'amministrazione americana ha dato ampia prova di tenere in considerazione le vite umane, comprese quelle dei suoi cittadini, meno di un dollaro bucato. Quanto ai costi economici, l’11 settembre e quello che né è conseguito hanno in realtà permesso agli americani di rimettere in piedi la propria economia sull’orlo del collasso grazie all’esplosione (è il caso di dirlo) delle spese militari.
Morale: per qualcuno la guerra permanente è un ottimo affare.

Andrea Marcon

Commenti
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lukky77@gmail.com
Shankara (Registered) 23-10-2007 17:19

Grande Andrea, è proprio questa la logica perseguita dalla megamacchina (come la chiama Latouche) dei poteri forti internazionali, demenziale se valutata con il buon senso in cui ci arrabattiamo noi poveri cristi per tirare avanti, ma lucidamente razionale per gli speculatori globali.
Questa osservazione mi da lo spunto per esprimere una antica perplessità sul nostro Massimo Fini. Per carità, tengo a subito a precisare che sono e rimango un suo convinto estimatore, che gli riconosco di essere stato il primo intellettuale, almeno in Italia, ad evidenziare, più di vent'anni fa, i limiti, le aporie e le conseguenze devastanti della dionisiaca follia sviluppista; intuizione per la quale non gli saremo abbastanza grati.
Quello che, però mi suscita da tempo qualche dubbio è il suo attaccamento alla logica e a volte pure alle linee guida dell'agenda dell'informazione di regime (faccio soltanto qualche esempio disarticolato su un tema che meriterebbe ben altro sforzo riflessivo): l'11 settembre è stato certamente un attacco terrorista, il terrorismo esiste sono soltanto scellerati i metodi per combatterlo; la guerra in Afghanistan si è rivelata un fallimento lo dimostra pure il fatto che le donne afgane sono ancora obbligate ad indossare il chador (come se alle autorità Usa e internazionali gliene fregasse qualcosa della cosiddetta %u201Clibertà delle donne musulmane%u201D e questa non fosse soltanto una campagna per convincere i benpensanti dementi della fondatezza dell'attacco). Qualche settimana fa si è dichiarato addirittura soddisfatto perchè quell'ameba indecente di Sergio Romano (uno che arrossisce di vergogna se ode in lontananza una parolaccia, anche se detta con ironia, e rimane lucidamente razionale se deve commentare lo sterminio di decine di migliaia di persone) ammetteva l'impiego eccessivo di uranio impoverito nelle ultime e sciagurate campagne della coalizione dei volenterosi (un nome, un programma). Embè? Ma chisseneimporta! Come se dovessimo aspettare la benedizione dell'indecente Corriere della Sera e dei suoi osceni tromboni per impietrirci dinanzi a questo genocidio vergognoso!
Sia chiaro non voglio certo accusare Fini di disonestà intellettuale, ci mancherebbe! Ho avuto la fortuna di scambiare in un paio di occasione qualche battuta con lui e ne ho ricavato l'impressione di un uomo profondamente onesto e sincero.
Voglio soltanto suggerire che mi pare che Fini provenga da una generazione ancora legata ai valori, alle gerarchie della cultura ufficiale, o dominante che dir si voglia (mi viene in mente il suo rammarico, più volte ribadito, per non aver potuto scrivere sulle testate principali del nostro paese).
Spero che la nostra generazione (ho 30 anni), e mi sembra di intravvedere qualche segnale positivo in questo senso, è che finalmente, non solo evidenziamo e combattiamo le ignobili nefandezze perpetrate dai poteri oligarchici che ci opprimono, ma decostruiamo e buttiamo a mare tutta la sovrastruttura sociale, politica, culturale e, soprattutto psicologica che questi vogliono imporci.
Faccio un esempio su quella che dovrebbe essere una nuova scala di valori: per me un Alessio Mannino vale 1000 Sergio Romano o, per dire, una ciglia di Marco Bollettino (Ashoka di Luogocomune) vale più di tutto Eugenio Scalfari ed il Corriere sta in rapporto al sito comedonchisciotte come Faletti a Thomas Mann.
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