Sindaci "dimissionati"

20 Maggio 2016

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Da Il Ribelle, quotidiano on line, dell’11-5-2016 (N.d.d.)

 

Se fossi il sindaco di Livorno o un qualsiasi altro amministratore cui si chiede di dimettersi perché indagato, imputato, rinviato a giudizio oppure condannato non definitivamente, risponderei: «Che fanno i magistrati stessi, quando si ritrovano indagati, imputati o condannati? Si dimettono o non si dimettono? Spesso non si dimettono; quindi perché dovrei dimettermi io, tanto più che, a differenza dei magistrati, ho una legittimazione popolare? La democrazia non lascia ai PM di decidere chi può rappresentare la gente». Personalmente, conosco qualche magistrato che, accusato di un reato piuttosto grave, con prove piuttosto evidenti, si è semplicemente trasferito nella città più vicina, senza che alcuno chiedesse le sue dimissioni, e continua tranquillamente a giudicare o inquisire ed accusare, tra colleghi e avvocati che sanno della sua situazione. Dov’è il problema? Se lo standard generale di sensibilità nel Paese è questo, va bene così. Sapendo che nell’apparato pubblico l’illegalità e l’affarismo sono molto diffusi, è pure irrazionale credere che una parte specifica di esso, cioè il settore giudiziario, sia diversa e immune da quelle caratteristiche anziché simile al resto dell’apparato, tanto più che si conoscono molti casi di magistrati autori di gravi illeciti, e che quindi è evidente che la qualità di magistrato non è affatto garanzia di legalità o moralità. Certo, sapere quanto è corrotto l’apparato pubblico suscita il forte bisogno emotivo di credere in un potere superiore e immune da questi vizi e in grado di colpire la corruzione e risanare il sistema. Questo bisogno alimenta il prestigio popolare della magistratura, con la sua mitologia.

 

Vengo a un terzo punto, ancora più importante, che devo spiegare, come avvocato e giurista. Si tratta del rapporto tra processo e ricerca della verità. Comunemente si pensa che la verità debba essere accertata dal processo e dai giudici, perché accertarla sarebbe la funzione del giudizio. Così non è, come ogni avvocato sa: sententia facit de albo nigrum. Nella ricerca scientifica o storica o sociologica, la verità è ricercata a) senza limiti formalistici e senza vincoli di scopo, liberamente; b) ogni accertamento può e deve essere rimesso in discussione quando emerga qualche dato di fatto che smentisca l’accertamento già acquisito: le conclusioni della scienza sono sempre provvisorie e aperte. La ricerca della verità, nel processo, è invece a) finalizzata non alla conoscenza ma a chiudere un caso prendendo una decisione; ed è b) sottoposta a forme, limiti, scadenze che spesso portano a risultati molto diversi rispetto alla verità. Il processo deve adattarsi al principio del contraddittorio e al principio dell’onere della prova, che non si applicano all’indagine scientifica. La sentenza può accertare una cosa oppure il suo contrario solo perché un avvocato o il pubblico ministero non chiede per tempo l’audizione del testimone chiave oppure non riesce a produrre in tempo un documento importante o perché non rispetta qualche formalità nell’assunzione di una prova, per esempio di un’analisi chimica o di un’intercettazione telefonica. Avviene che un colpevole non venga nemmeno giudicato o sia prosciolto perché interviene la prescrizione o perché la querela viene rimessa o perché cambia la legge. O che sia assolto per insufficienza di prove. O che qualcuno sia indagato e arrestato perché alcuni magistrati vogliono neutralizzarlo per ragioni di politica o di affari, oppure, al contrario, può darsi che gli diano copertura e protezione. La ricerca scientifica e storica o investigativa, se non riesce ad accertare o confutare un’ipotesi, può dire “non sappiamo, sospendiamo il giudizio”; il giudice invece deve decidere in ogni caso. Per queste ragioni, è errato pensare che le sentenze accertino e certificano la verità dei fatti e delle eventuali colpe e che si possano sostituire alla libera indagine. Non è il sigillo dell’autorità statale a rendere certa e indiscutibile un’affermazione dal punto di vista della verità. È da stupidi o ignoranti od opportunisti dire: “non so quale sia la verità; aspettiamo che i giudici accertino se i fatti di cui Tizio è accusato o no”, “i giudici accerteranno la verità e noi potremmo e dovremmo attenerci alle loro verifiche come accertamenti definitivi e indiscutibili per decidere se Tizio o Caio sia degno o indegno di fare il sindaco, il ministro, il presidente di un ente pubblico.” Talvolta neppure una condanna o un’assoluzione definitiva risolve i dubbi.

 

Sarebbe comodo e rassicurante che le cose stessero così, ma così non stanno, e il principio di realtà esige che ci rassegniamo a non avere un metodo automatico per risolvere questi dubbi. Dobbiamo esaminare caso per caso e concretamente la vicenda, e, se non lo possiamo fare, in mancanza di prove evidenti, dobbiamo sospendere il giudizio e tenerci il dubbio. Conclusione questa molto frustrante per il pensiero popolare, che invece esige giudizi chiari, semplici, forti, definitivi, e possibilmente che producano una scarica emotiva.

 

Marco Della Luna

 

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