Riarmo cinese

14 Marzo 2017

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Da Lettera43 del’11-3-2017 (N.d.d.)

 

Con Barack Obama la Cina era un nemico silenzioso. Gli Stati Uniti puntavano a spostare la loro sfera d'influenza dal Medio Oriente all'Asia centrale, piazzando basi militari negli Stati limitrofi alla potenza del Dragone. Frizioni si presentavano periodicamente per la disputa storica con il Giappone e Taiwan sulla sovranità delle isole Senkaku-Diaoyu: navi da guerra e caccia cinesi si avvicinavano al piccolo arcipelago, attorno al quale Pechino ha schierato radar e batterie di missili. Gli Stati Uniti facevano la voce grossa in difesa del Giappone, spedendo anche caccia di ricognizione e navi militari. Ma finiva lì. Con Donald Trump presidente degli Usa le schermaglie tra la nomenclatura di Pechino e diversi vicini di casa filoamericani si sono subito accelerate: la Repubblica popolare cinese è bersagliata dal tycoon come primo nemico economico, un'aggressività che fa montare la militarizzazione crescente dell'antico Celeste impero. «Reagiremo con decisione per difendere la nostra sicurezza. Qualunque conseguenza di tale situazione sarà a carico degli Stati Uniti e della Corea del Sud», ha fatto sapere Pechino in riferimento allo scudo antimissile Thaad degli Usa, al di sotto del 38esimo parallelo. Il sistema antibalistico, in realtà deciso dall'ultima amministrazione Obama ma dispiegato dal marzo 2017, è da sempre criticato dalla Cina, che lo ritiene un «pretesto per creare un'alleanza trilaterale tra Stati Uniti, Corea e Giappone» e non soltanto la dichiarata difesa contro il regime di Pyongyang. Il gigante cinese non si trova in una buona posizione anche per le ultime mosse folli del giovane e inaffidabile dittatore Kim Jong-un – l'uccisione in Malesia del fratello Kim Jong-nam e i quattro missili appena lanciati contro il Giappone – dalle quali Pechino si è dissociata, applicando le sanzioni dell'Onu. La Corea del Nord è un alleato geopolitico chiave della Repubblica popolare, che tuttavia sui missili è stata costretta a dare ragione al Giappone per la «grave violazione territoriale» subita. Per far abbassare la testa a Kim Jong-un, Pechino ha smesso anche di acquistare carbone dalla Corea del Nord. In Corea del Sud stazionano 26 mila truppe statunitensi e Trump, oltre a dichiarare guerra commerciale protezionista alla Cina, ha esortato la nomenclatura comunista a «risolvere il problema di Pyongyang, perché la Cina ha controllo totale sulla Corea del Nord». La Repubblica popolare ha intimato agli Usa di smetterla di fare osservazioni sbagliate sul Giappone, aumentando l'instabilità

 

Non potendosi più fidare di nessuno, la Repubblica popolare corre a potenziare il parco armamenti, finora non eccezionale, per proteggere il miliardo e quasi 400 milioni di suoi abitanti, presidiando anche i territori rivendicati, a Ovest, nel Mar cinese meridionale. Nelle isole parzialmente controllate di Paracel-Xisha (invase dal Giappone, riconsegnate alla fine della Seconda Guerra Mondiale alla Cina ma ancora contese con Vietnam e Taiwan) ha montato delle batterie di missili. E negli atolli di Spratly-Nansha (presidiati anche da Vietnam, Taiwan, Malesia e Filippine), dai fondali ricchi di giacimenti petroliferi, ha costruito delle isole artificiali-portaerei con radar e piste di decollo. Con l'omologo Trump, il capo di Stato cinese Xi Jinping ha avuto un colloquio telefonico dai toni cordiali. Ma sulle Senkaku, nel Mar Cinese Orientale pure scrigno di idrocarburi, la Repubblica popolare ha poi intimato agli Usa di smetterla di fare «osservazioni sbagliate» sulla sovranità nipponica, in nome di un trattato di alleanza «prodotto della guerra fredda» che «aumenta l’instabilità regionale». In risposta allo spiegamento dello scudo Thaad, al confine con l'estremo oriente russo che volge verso l'Alaska la Cina ha sfoderato una batteria di missili balistici intercontinentali avanzati, di ultima generazione. L'annuncio è stato dato a gennaio 2017 in pompa magna dalla stampa ufficiale della nomenclatura comunista. In caso di attacco, i nuovi missili Dongfeng41 (letteralmente, Vento dell'Est) verrebbero intercettati dagli scudi nipponici e sudcoreani, ma quel che preme a Pechino è mostrare i muscoli con un'arma, secondo un rapporto del Pentagono, sviluppata nel 2014 e in grado di impattare il suolo americano a mezz'ora dal lancio, sorvolando il Polo Nord. Nel 2015, alla grande parata in ricordo della vittoria nella Seconda guerra mondiale la Cina fece sfilare un altro gioiello, in grado di imbarcare anche testate atomiche: il Dongfeng DF-21D, versione antinave del missile balistico a medio raggio DF-21, fratello minore del Dongfeng41 e soprattutto minaccia concreta per le portaerei statunitensi nei paraggi del Mar cinese meridionale e orientale, nonché per le flotte rivali asiatiche. Da qualche anno la Repubblica popolare concentra gli sforzi soprattutto nel dotarsi di potenti missili d'avanguardia: nell'aprile 2016 è stato testato il Dongfeng41, la Difesa cinese conta di equipaggiarsi di più di un migliaio di Dongfeng DF-21D. E alla fine del 2016 la China Aerospace Science and Industry corp. (tra i più grandi produttori di armi del Paese) ha annunciato la progettazione del missile supersonico antinave CM-302, «il migliore al mondo», su modelli degli antinave russi. L'anno passato la Cina ha anche tagliato il nastro alla prima portaerei di produzione propria, costruita a tempo record e dai primi mesi del 2017 pronta a solcare i mari territoriali. La grande nave militare 001A arricchisce la flotta della Marina cinese, composta altrimenti dall'unica altra portaerei Liaoning e da 80 sommergibili, e sarà in grado di imbarcare il doppio dei caccia (tra le 40 e le 50 unità, inclusi i multiruolo di ultima generazione ricalcati sui Sukhoi russi), aerei da ricognizione ed elicotteri. In cantiere ci sono infine quattro caccia «invisibili» Chengdu J-20, da sviluppare poi in sei varianti per ogni funzione bellica, che gli strateghi militari degli Usa ritengono capaci di penetrare anche ambienti «pesantemente difesi». Pechino intenderebbe schierarli nel Mar cinese meridionale dal 2018, in supporto alle nuove batterie di missili. Anche per il 2016 la Repubblica popolare ha aumentato del 7% la sua spesa per gli armamenti: un budget di oltre 140 miliardi di dollari che in rapporto al Pil (1,3%) non è la cifra spropositata paventata da Trump ma che, dopo gli Usa, resta il bilancio militare più alto al mondo, per moltiplicare i mezzi a disposizione di oltre 2 milioni di soldati. Clonati dalle altre potenze a ritmi rapidissimi.

 

Barbara Ciolli

 

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