Post-verità

16 Settembre 2017

 

Da Rassegna di Arianna del 14-9-2017 (N.d.d.)

 

La notizia di norma dovrebbe essere nient’altro che il riflesso di un fatto, in un rapporto verticale è il fatto che crea la notizia. Ciò che accade invece, è l’esatto opposto: è la notizia che crea una realtà indipendentemente dal fatto, dalla verità. Una delle grandi conquiste della democrazia dopo il secolo dei totalitarismi è sicuramente la “libertà di stampa”: con la democrazia terminava il tempo della censura e della propaganda totalitaria, questa convinzione poggiava sul presupposto che dopo il male assoluto è nell’interesse dello stato tenere i cittadini ben informati sulle vicende del mondo. Questo presupposto non solo è falso, ma va ricordato anche – come scrive Marco Tarchi – che chi vuole omologare le masse al proprio modo di pensare dispone oggi di strumenti per controllare le menti ben più raffinati di quelli di cui hanno fatto uso i regimi totalitari del periodo fra le due guerre mondiali, a partire dai mezzi di comunicazione audiovisiva, di cui già Goebbles aveva intuito le straordinarie potenzialità manipolative.

 

Un caso indicativo sull’uso persuasivo di immagini da parte dei media per condizionare l’opinione pubblica, è sicuramente quello della rivolta di Timisoara. Il 17 dicembre 1989 un anonimo cittadino cecoslovacco denunciò colpi di arma da fuoco sparati a Timisoara per sedare una rivolta, in due giorni la notizia (senza fonte) di un massacro fece il giro del mondo attraverso i più grandi organi di informazione. Il 22 dicembre sugli schermi di tutto il mondo apparvero le immagini del massacro: corpi mutilati e ricuciti di uomini e donne messi in fila appena disseppelliti dalle fosse comuni, l’immagine che colpì di più fu quella del corpo di una bambina appoggiato su di una donna, probabilmente la madre. I morti – secondo i giornali – erano più di 4600 e il responsabile del massacro era ovviamente Ceausescu. I giornalisti “esterni” poterono mettere piede a Timisoara il 22 dicembre, ciò che apparve fu qualcosa di diverso: la città non aveva l’aspetto di un posto assediato e gli ospedali erano stranamente vuoti nonostante i quasi 2000 feriti annunciati dai media (dei medici senza frontiere francesi affermarono di essere subito ritornati in Francia perché non vi era alcun bisogno di loro) ma inizialmente solo pochi di questi cronisti denunciarono la realtà. Cos’era successo a Timisoara? Tra i giornalisti giunti sul posto vi erano due italiani che –a  spese proprie – volevano assistere alla rivoluzione romena: Sergio Stingo e Michele Gambino; i due arrivati al cimitero si accorsero che qualcosa non tornava: “c’è qualcosa di strano… almeno la metà dei cadaveri sono in avanzato stato di decomposizione, non c’è bisogno di essere degli esperti per stabilire che la morte risale a diverse settimane fa”; e ancora: la “madre” del bambino ha almeno una sessantina d’anni, e il suo cadavere è peggio conservato di quello di quello del presunto figlio; i due cronisti chiesero spiegazione al custode del cimitero: quei corpi, spiegò l’uomo, sono di vagabondi: barboni, ubriaconi, derelitti; questo, aggiunse è il cimitero dei poveri. Non c’era stata tortura, ma autopsia: perciò i cadaveri erano tagliati dal mento all’addome, e ricuciti. I corpi erano stati disseppelliti, illuminati, fotografati, ripresi dalle telecamere. “Ho detto tutta la verità –si dispera il becchino-; l’ho detta ai giornalisti. Ma nessuno mi crede”. Mentre negli stessi giorni gli Stati Uniti d’America erano impegnati nell’invasione del Panama, il mondo aveva gli occhi puntati su Timisoara – o meglio – su ciò che era stato costruito su Timisoara; erano sempre di più i giornalisti che si chiedevano che fine avessero fatto le fosse comuni e tutti i corpi trucidati dagli uomini della Securitate, i conti non tornavano. Si scoprì perfino che la bambina ritrovata sul corpo della presunta madre si chiamava Christina Steleac ed era morta per una congestione il 9 dicembre 1989 e che la “madre”- Zamfira Baintan – era un’alcolizzata morta di cirrosi epatica l’8 novembre 1989. Nessuna tortura. Molti giornali parlarono di un falso massacro, ma la smentita non raggiunse mai i grandi organi di informazione. Senza alcuna fondatezza i morti (inesistenti?) di Ceausescu divennero storia e ciò che restò furono le immagini dei corpi senza vita nella coscienza dei telespettatori. Una “realtà” costruita a tavolino. L’intera faccenda ricorda un po’ le parole di Tomasi di Lampedusa: molte cose sarebbero avvenute, ma tutto sarebbe stato una commedia, una rumorosa, romantica commedia con qualche macchia di sangue sulla veste buffonesca.

 

Questo evento calza perfettamente con la definizione di post-verità: “argomentazione, caratterizzata da un forte appello all’emotività, che basandosi su credenze diffuse e non su fatti verificati tende ad essere accettata come veritiera, influenzando l’opinione pubblica” (Treccani). La parola post-verità, è stata eletta parola internazionale dell’anno 2016 a seguito dei risultati della Brexit e delle elezioni presidenziali statunitensi, a causa della vittoria dei fronti dati per sfavoriti dal mainstream. Sebbene il termine risalga ai primi anni novanta, la post-verità è solo un vocabolo per indicare qualcosa che accompagna l’uomo fin dall’antichità; prima ci limitavamo a chiamarla falsità. Non è post-verità quando Pirandello ricorda: si legge o non si legge in Quintiliano, come voi m’avete insegnato, che la storia doveva esser fatta per raccontare e non per provare? Non è post-verità quando Orwell scrive: chi controlla il passato, controlla il futuro, chi controlla il presente controlla il passato?

 

Oggi se da un lato l’élite che controlla le notizie possiede mezzi sofisticati per persuadere i telespettatori, dall’altro cresce lo scetticismo nei confronti di questi mezzi, grazie alla diffusione del web in cui il rapporto tra chi scrive e chi legge è orizzontale e non verticale come in tv. Ciò nonostante l’élite con la volontà di sopprimere le cosiddette fake news trova sempre il modo per screditare le posizioni non allineate. Su questo punto occorre ricordare le dichiarazioni del segretario di stato degli USA Colin Powel che il 5 febbraio 2003 dichiarò “Il fatto che l’Iraq smentisca ogni appoggio al terrorismo vale quanto le smentite sul possesso di armi di distruzione di massa. È una trama di menzogne.” Mentre nemmeno un anno dopo rimangiò le sue parole affermando il 3 febbraio 2004 “Adesso lo posso dire. Se avessi saputo ciò che so ora, e cioè che non esistevano in Iraq armi di distruzione di massa, non credo che mi sarei espresso a favore di quella guerra”. Morti a parte, la notizia dell’esistenza di armi di distruzione di massa nelle mani di Saddam Hussein (rivelatasi falsa) venne pubblicata sulle più importanti testate giornalistiche e da tutti i TG. Non è forse anche questa una fake news? Chi decide ciò che è vero e ciò che non lo è? Sembra di trovarsi di fronte ad un decreto del Ministero della Verità di cui parlava Orwell. Ciò che conta nella diffusione delle notizie è la forma, il contenuto è relativo: una storia falsa ben raccontata colpisce di più di una storia vera raccontata male: scriveva Schopenhauer: per dare forma con chiarezza alla Dialettica si deve, senza preoccuparsi della verità oggettiva (la qual cosa compete alla Logica) considerarla semplicemente come l’arte di ottenere ragione. In altre parole la “verità” dipende dalla forza di chi la sostiene.

 

Per concludere possiamo affermare che la post-verità è sempre esistita e che – anzi – oggi più che mai, nell’era del digitale, è più facile scrostare i miti della realtà artificiale che l’élite vorrebbe imporre. Nonostante “la guerra” tra mainstream e web sia ancora ad armi impari, il risultato della Brexit e l’elezione di Trump, che hanno portato alla ribalta la parola post-verità, dimostrano come la diffidenza nei confronti dei media tradizionali cresce. L’informazione sta subendo un processo di “orizzontalizzazione” che se da una parte decostruisce l’autorità e il monopolio del mainstream trascina con sé il problema del “Todos Caballeros” in cui se tutti fanno informazione, nessuno fa informazione.

 

Umberto Iacoviello

 

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