Appello all'antisfascismo

12 Ottobre 2017

 

Da Rassegna di Arianna dell’8-10-2017 (N.d.d.) 

 

Giampaolo Pansa, giornalista di sinistra di lunghissimo corso, è costretto da anni a scrivere su giornali di destra in quanto la sua attività di libero ricercatore lo ha portato a ricostruire la storia nazionale, in particolare quella relativa alla guerra civile e ai primi anni del dopoguerra, rivelando fatti e traendo conclusioni sgradite alla narrazione ufficiale imposta da 70 anni alla nazione intera dalla politica a trazione comunista di ascendenza “azionista”. Un suo accorato intervento mette in guardia contro lo sfascio che, a suo parere, si è impadronito dell’Italia. Lo sfascismo sembra effettivamente essere il collante unico, l’ideologia sotterranea che percorre le vene ostruite di questa nazione in declino. Non ci interessano facili giochi di parole, né intendiamo sprecare una sola riga su un parlamento impegnato prevalentemente – dopo aver sistemato le questioni relative ai privilegi dei propri componenti – a legiferare sul divieto delle immagini di dittatori del trapassato remoto e legalizzare la sostituzione del popolo italiano con gli stranieri. Tutto sommato, si tratta di effetti, non cause dello sfascio cui assistiamo, per cui ci tocca un compito più serio: reagire allo sfascio, se c’è, e fare appello ad una nuova missione civile, l’antisfascismo.

 

“Le vostre parole siano sì sì no no”, è un passo del Vangelo di Matteo assai impopolare al tempo del relativismo vincente, del chiaroscuro, dei giudizi a metà, della correttezza politica e del plumbeo conformismo delle magnifiche sorti e progressive. La negazione è molesta nella società permissiva, quella delle etiche indolori e della cultura della compiacenza. Dire di no ha cattiva stampa, non è cool, suona ad autoritarismo, severità o intransigenza. Il pensiero debole che esalta il luogo comune secondo cui tutte le opinioni sono rispettabili sacralizza la simpatia, l’affabilità, la tolleranza e la delicatezza, virtù certo edificanti e desiderabili ma non incompatibili con un certo grado di energia e forza. La società, trascinando la politica, il costume, il senso comune, si è trasformata, al seguito di questa corrente finto benevola, in una specie di industria della soddisfazione nella quale bisogna sempre dare ragione al cliente anche se non ce l’ha. È l’esito coerente del mercato misura di tutte le cose e, sul piano sociologico, dell’incrocio ed ibridazione avvelenata tra due ribellioni uguali e contrarie: quella delle masse, osservata già nei primi decenni del XX secolo da José Ortega y Gasset e quella delle élite, descritta con tanta perfezione alla fine del secolo da Christopher Lasch. Uno dei lati della società è formato da masse ineducate, ogni giorno più incolte, attraversate da pulsioni basse, istintive e materiali prodotte dal mercato – la ragione è del cliente consumatore purché compri e si indebiti– neo plebi interessate solo al soddisfacimento immediato ed al consumismo più becero, quelli che Maurizio Blondet chiamò Selvaggi con telefonino. Un altro lato è quello delle sedicenti élite, divenute cosmopolite, amanti del nuovo ad ogni costo, della competizione, sedotte dal multiculturalismo, indifferenti alle religioni e sprezzanti di ogni identità forte, istruite senza essere colte, nomadi, sradicate, che disprezzano il resto dei concittadini, anzi non li considerano neppure tali, respingono le responsabilità civiche, una tribù senza luogo innamorata di sé, del presente e del progresso, concetti peraltro che non saprebbero neppure definire, ma che contrappongono al buio di ogni passato. Questi due lati hanno finito per assomigliarsi, in un processo di identificazione acritica di massa con idee, manie, comportamenti dei ceti superiori caratteristica di ogni tempo. Sulle piste di Ortega e Lasch, un intellettuale assai influente in Inghilterra, David Goodhart, teorizza un nuovo fronte di divisione sociale, politicamente e socialmente trasversale, quello che oppone due tribù incompatibili ed incomunicabili, gli “Ovunque” (Anywhere) e i “Solo qui” (Somewhere). Gli Ovunque, come le élite narcisiste, egocentriche e traditrici di Chiristopher Lasch, sono al potere, dirigono il mondo dell’informazione e dell’intrattenimento, dettano la linea, influenzano in maniera decisiva l’economia e di riflesso la sua ancella politica, vivono in un mondo che possiamo definire, con Marc Augé, come un immenso nonluogo, o, più semplicemente, un Altrove che non tiene conto della realtà di tutti gli altri attori sociali. Inclini a muoversi compulsivamente (pensiamo ai sogni della Generazione Erasmus), convinti che l’immigrazione, con il conseguente diluirsi delle identità comuni, siano un fenomeno naturale (come il mercato, non a caso…) o addirittura un bene, gli Ovunque sono generalmente individualisti, benestanti ed egoisti dietro lo schermo rassicurante di un generico umanitarismo. Grazie ad un’identità liquida, “portatile”, basata sul successo personale si adattano facilmente ai cambiamenti e alla globalizzazione. I Solo Qui sono persone più radicate nei luoghi di provenienza, si muovono poco e hanno tendenze più comunitarie, meno adattabili. Patiscono l’apertura indiscriminata, la competizione, il multiculturalismo. Fino a trenta o quarant’anni fa la loro visione del mondo era egemone, poi nello spazio di due generazioni, complice anche la scolarizzazione universitaria di massa, è stata sostituita da quella degli Ovunque. Lo scontro tra queste due visioni incompatibili, unito all’egemonia numerica dei” selvaggi con telefonino” irresponsabili e pressoché decerebrati, refrattari a qualsiasi valore comune o principio condiviso, rende inevitabile lo sfascio. Esso esiste, non è un’invenzione di inguaribili reazionari o l’ultimo rigurgito di qualche barbagianni tormentato dalla senilità avanzante. Che si viva peggio di una volta è evidente a chiunque, e su questo convincimento è facile constatare l’unanimità dei “Solo Qui”, che formano la maggioranza perplessa e silenziata. Quanto agli Ovunque, non è un loro problema: stanno ben protetti nei consigli di amministrazione, nei briefing di servizio, competono e brigano notte e dì per rafforzare o mantenere le posizioni acquisite, sistemare figli e amanti ( il principio monarchico ereditario è mutato solo nella forma), frequentano le sale Vip degli aeroporti, i vernissage delle avanguardie artistiche alla moda, le loro vacanze avvengono nelle varie Capalbio o nei locali cari a Flavio Briatore in cui non sono ammessi i fastidiosi migranti, ma nemmeno i petulanti detentori di reddito incerto che viaggiano Ryanair. Gli Ovunque, o élite ribelli nel lessico di Lasch, irresponsabili secondo il senso comune, si esprimono preferibilmente in un inglese tecno-economico- informatico, le loro residenze sono villette suburbane o condomini situati in zone vigilate da guardiani privati, dalle quali osservano con le sopracciglia alzate e il deodorante a portata di mano i problemi, le idiosincrasie, le lotte intestine altrui. Gran parte dello sfascio è opera e responsabilità loro, unita all’incapacità dei molti a reagire o, almeno a mantenersi in piedi tra le rovine. I grandi temi sono il lavoro che manca ed è sempre più precario, l’allarmante perdita di punti di vista comuni, il dissolvimento progressivo di ogni riferimento, la fine della comunità che Ivan Illich definiva vernacolare e Serge Latouche conviviale. Ciò che avvolge tutto ciò è una pappa sociale liquida (Bauman), forse addirittura gassosa che si ripercuote su tutto ed è appunto lo sfascio diffuso che rende una Via Crucis la vita di tutti i giorni. […]

 

In ogni ambito, chi osa richiedere un minimo di disciplina, regole certe e punizione per i comportamenti negativi viene posto in minoranza, schernito, isolato. Chi osa parlare di senso del dovere o responsabilità è circondato dal ridicolo o visto come un personaggio del passato. Valori predominanti, il denaro, il successo, da conseguire con qualunque mezzo, la moda, i capi firmati, le vacanze esotiche, il disimpegno. Non può funzionare, si va avanti solo perché non tutti condividono lo sfascio e, nonostante tutto, sopravvive tenace una coscienza individuale volta al senso comune. Un centro qualsiasi è perduto. Una delle più influenti famiglie italiane, i Falck, ospita nella sua villa un’installazione definita molto impropriamente arte detta “La nave della tolleranza”. Si tratta di un manufatto in legno a grandezza naturale, realizzato da due coniugi ucraini, Ilya e Emilia Kabakov, le cui vele sono un patchwork informe di bandiere, disegni di bambini di tutto il mondo, insegne varie. Questa è la tolleranza moderna: l’indifferenza al giudizio morale, l’equivalenza di ogni bandiera o di nessuna bandiera, il soggettivismo elevato ad unico criterio insindacabile, la bizzarria elevata ad arte. Tutto sembra legittimo, l’etica e la morale sono state privatizzate. Scrive Christopher Lasch nella Ribellione delle élite: “Siamo diventati un po’ troppo accomodanti e tolleranti. È raro che qualcuno si prenda la briga di correggere un errore o di discutere con degli oppositori con il proposito di cambiare il loro punto di vista. Si preferisce gridargli contro o convenire di non essere d’accordo, perché tutti abbiamo diritto alle nostre opinioni. È più probabile che la democrazia muoia di indifferenza piuttosto che sia stroncata dall’intolleranza. Tolleranza e comprensione sono virtù importanti, ma non devono ridursi a una giustificazione dell’apatia.” È davvero così, e si rimpiange la saggezza antica della Chiesa che esortava sì a distinguere l’errore dall’errante, ma sempre riconoscendo negative le attitudini contrarie alla legge naturale. Adesso non si hanno più convinzioni, ma semplici opinioni, intercambiabili, mutevoli, pret-a porter. Non si finisce di rammentare invano che tollerare significa accettare- per quieto vivere, per evitare mali minori o per mille altre motivazioni- qualcosa che comunque non condividiamo e di cui diamo un giudizio negativo. Ma qui, ahimè, casca l’istruito asino postmoderno: è proibito giudicare. Eppure, esprimere giudizi, esercitare il libero arbitrio, distinguere, scegliere dovrebbe essere uno dei cardini del principio democratico. Sentiamo ancora Lasch mentre esalta il populismo oggi demonizzato: [il populista] è riluttante a fare concessioni o a sospendere il giudizio in considerazione del fatto che “la colpa è della società”. “Il populismo è giudiziale, per servirsi di un aggettivo il cui uso peggiorativo corrente ci dimostra quanto le capacità di giudizio discriminante siano state indebolite dal clima morale e dalla preoccupazione umanitaria”. Il pensatore statunitense scriveva all’inizio degli anni Novanta del Novecento, e da allora tutto si è deteriorato in maniera enorme. Lasch, va ribadito, si considerava un uomo di sinistra, per quanto avvertisse la debolezza delle opposte categorie segnaletiche. In questo fu un perfetto seguace dello stesso Ortega, cui si deve la famosa frase “dirsi di destra o di sinistra è uno dei modi che l’uomo può scegliere per essere imbecille: entrambe, di fatto, sono forme di un’emiplegia morale”. Il primo requisito per essere antisfascisti è allora quello di ridiventare “giudizialisti”, ossia esprimere senza tentennamenti la propria idea di bene e di male, giusto e sbagliato, e praticare le condotte conseguenti. Il libero arbitrio presuppone la scelta meditata di non cedere agli istinti, posticipare le pulsioni immediate, valutare l’interesse personale alla luce di criteri morali. Pochi giorni fa, il candidato grillino a capo del governo Luigi Di Maio ha affermato che assolverà ai suoi compiti con onore e disciplina. Speriamo che non sia una formuletta per i gonzi e che creda davvero in concetti tanto derisi come quelli che ha evocato. È dura rovesciare la società dei diritti – vecchia ormai di oltre due secoli come la “sua” Rivoluzione Francese – per recuperare categorie prepolitiche tanto impopolari come l’assolvimento dei doveri e l’assunzione di responsabilità. Tuttavia, non ci sono scorciatoie. Allo sfascio si reagisce costruendo, iniziando dalle pratiche personali, da improntare al senso del dovere, all’equilibrio, al rispetto non ostentato, al senso comune, lo svolgimento sereno e scrupoloso dei propri compiti personali, professionali, familiari e civici. Non siamo una somma algebrica di individui, ma comunità che condividono la prossimità. In ogni tempo, ciò ha determinato comportamenti, usi, costumi, valori più o meno condivisi. Le comunità non sono gabbie, ma sistemi di vita. È provato che meno le persone si sentono affini ai propri concittadini, meno sono disposte a pagare i servizi pubblici, ad approvare qualunque forma di solidarietà e redistribuzione della ricchezza, ad accettare sacrifici, limitazioni, doveri. La volontà di intervenire nelle condizioni di bisogno o disagio sociale dipende dal grado d’identificazione coi concittadini. È un dilemma di fronte a cui la nuova sinistra progressista è rimasta cieca, riunendosi in questo con la destra egoista dei sacerdoti del mercato e dell’individualismo. Il liberalismo stesso, artefice e mentore del pensiero dominante, deve ricominciare a guardare verso i “Solo qui”, riconoscere l’esistenza di sensibilità distinte dalle proprie, probabilmente maggioritarie ed ascoltare con più pazienza chi ha meno da gioire del cambiamento. Un ordine sociale mondiale basato su tante nazioni diverse è preferibile a uno straripante non-luogo sovranazionale, un ordine civile morale è sempre preferibile alla confusione della Torre di Babele, in cui, inevitabilmente, si perde la forza del diritto e si torna al diritto della forza (e del denaro). Il leader britannico euroscettico Nigel Farage disse una volta di essere a disagio nel non sentire più una parola d’inglese nei mezzi pubblici a Londra: i media degli “Ovunque” insorsero dandogli dello xenofobo. Ma una maggioranza nettissima della gente vera, di chi vive e veste panni, lo riteneva un sentimento più che normale. Allo stesso modo, è ben più facile riconoscersi in un orizzonte meno grande, ma più familiare, è più normale amare, respirare il bello che il brutto invadente e pervasivo. Per essere felici, ci si deve identificare con qualcosa o qualcuno, un luogo, un’idea, un sentimento comune. Ciò che si sfascia, desta orrore ed induce alla fuga, al rinchiudersi in sé, ovvero, al contrario, a prestar fede a slogan astratti e generici, alla fuga in mille inferni artificiali. Allo sfascio si sfugge innanzitutto riconoscendolo, continuando ad indignarsi, restando in piedi e persistendo a comportarsi secondo le regole della legge naturale e della coscienza morale: infine, non sono altro che la buona, sana educazione ricevuta. A nessuno è richiesto eroismo per diventare antisfascista. Tenersi in piedi tra le rovine, ben oltre la fede religiosa che li prescrive(va), significa recuperare il senso universale dei comandamenti ed il valore fondante, davvero cardinale di quattro vecchie virtù sempreverdi. Prudenza, ovvero senso del limite; giustizia, trattare gli altri come si vorrebbe che ci trattassero loro; fortezza, cioè capacità di svolgere i propri compiti accettando le conseguenze dei nostri comportamenti; temperanza, oggi forse la più difficile delle attitudini, sapersi fermare, posticipare o trattenere le pulsioni dell’istinto e dell’interesse, quel maledetto “lustprinzip”, il principio di piacere scatenato dalla psicanalisi, oscura religione secolare della modernità.

 

Roberto Pecchioli

 

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