Un giornale-partito

29 Gennaio 2018

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Da Comedonchisciotte del 26-1-2018 (N.d.d.)

 

Il crepuscolo della Seconda Repubblica avanza minaccioso e non è certo casuale che sia accompagnato dalla crisi del quotidiano che, senza dubbio, ha dominato questo periodo della storia italiana, La Repubblica. Il quotidiano romano nasce, infatti, nel 1976 (vedremo, nel proseguo dell’articolo, in quali particolari “circostanze”) per affiancare L’Unità, quotidiano ufficiale del Partito Comunista e sensibilizzare Botteghe Oscure sulle tematiche “liberali”; cavalca nei primi anni ‘80 il caso P2; assiste l’assalto giudiziario che nel 1992-93 demolisce la Prima Repubblica; assume la funzione di mentore della sinistra post-comunista, traghettandola nella metamorfosi PCI-PDS-DS-PD; detta l’agenda al governo, se la sinistra vince le elezioni, guida l’opposizione antiberlusconiana, se le sinistra le perde. Assumendo la funzione di giornale-partito, Repubblica segue così le fortune dell’area politica di riferimento: patisce il governo Monti, si smarrisce con quello Letta, affonda, svelato il bluff iniziale, con l’esecutivo Renzi e si sfalda con quello Gentiloni. La diffusione “cartaceo+digitale”, che nel 2011 si attesta ancora attorno alle 425.000 copie, cala così alle 315.000 dell’autunno 2015, quando Ezio Mauro, direttore sin dal 1996, cede la poltrona a Mario Calabresi, in arrivo da La Stampa. […] la diffusione subisce un nuovo tracollo, calando sino alle 210.000 copie dello scorso autunno […] Le tensioni accumulatosi dentro il quotidiano debordano in pubblico nel gennaio 2018, con il velenoso confronto a distanza tra “il Fondatore”, Eugenio Scalfari, e “l’Editore”, Carlo De Benedetti […] La Repubblica vive una crisi strutturale perché la sua funzione storica, quella di essere il giornale-partito che inspira e guida la sinistra “liberal”, è esaurita, causa collasso della sinistra stessa: le prossime elezioni, infatti, certificheranno la caduta ai minimi storici del PD, incapace ormai di intercettare due categorie chiave dell’elettorato di sinistra, “giovani e lavoratori”, disperse tra Movimento 5 Stelle, astensionismo e partiti di destra. L’Ingegnere, cui non manca il senso per gli affari, ha probabilmente fiutato che il destino di Repubblica è segnato e perciò medita, nell’intimo, di sbarazzarsene.

 

Le rotative della Repubblica sono in funzione dal 1976: hanno egregiamente adempiuto al loro compito, forse sarà presto ora di spegnerle. Ma come è nato questo giornale-partito che, affiancando l’Unità, ha progressivamente acquistato la guida della sinistra, spostandola dai valori marxisti a quelli liberali? Chi è Eugenio Scalfari, ormai considerato da tutti soltanto un vegliardo che ama vantare le sue conoscenze con papa Jorge Mario Bergoglio e col direttore della BCE, Mario Draghi? Chi ha messo i soldi per l’avvio del settimanale L’Espresso e poi de La Repubblica? Perché, alla fine negli anni ‘80, è entrato nell’azionariato del quotidiano il finanziere De Benedetti, che ha giocato un ruolo di primo piano nel saccheggio dell’economia nazionale? Perché, infine, La Repubblica è sempre stata la punta di lancia di tutte le operazioni euro-atlantiche contro il nostro Paese, da Tangentopoli agli attacchi all’ENI, dal Rubygate al caso Regeni? Per rispondere a questa domanda, bisogna scrivere una breve, ma puntuale, storia del quotidiano romano: una storia, ovviamente, non ortodossa. Per fare ciò, ci serviremo di una preziosa fonte di informazioni: “La sera andavamo in Via Veneto. Storia di un gruppo dal Mondo alla Repubblica”, scritto dallo stesso Scalfari e edito da Mondadori nel 1986. È un libro che spiega “tutto”, purché si abbia la giusta chiave per decifrarlo. La semi-autobiografia di Scalfari racconta le gesta, lunghe un quarantennio, del gruppo di “liberals”, alias “liberali”, alias “radicali” che, nell’immediato dopoguerra, si fa rappresentante degli interessi dell’establishment atlantico, quello basato sull’asse Londra-New York. All’indomani delle elezioni del 1948 l’Italia, infatti, è dominata dal bipolarismo DC-PCI: la fedeltà del Partito Comunista a Mosca obbliga l’establishment atlantico a sostenere la Democrazia Cristiana, ma è un’alleanza forzata. Questo partito cattolico di massa, un po’ terzomondista e molto statalista, non è certo in sintonia con l’oligarchia atlantica: ebraica o protestante, ovviamente atlantista, convinta sostenitrice del libero mercato e delle libertà individuali (divorzio, aborto, droghe, etc.). Il grande disegno dell’establishment liberal è quindi di insinuarsi nella sinistra italiana, fagocitare progressivamente il PCI e, una volta conquistato, spostarlo su valori “atlantici e liberali”: l’operazione, che parte nel 1955 con la nascita del Partito Radicale, si conclude con pieno successo nel 1991, con la nascita del Partito Democratico di Sinistra. In questa manovra, gioca un ruolo decisivo Eugenio Scalfari ed il suo gruppo di “liberals”: a loro va imputata la paternità del Partito Radicale, del settimanale l’Espresso, del quotidiano La Repubblica. Chi sono quindi questi liberals, “spesso longilinei, spesso benestanti”, come li definisce Scalfari? Sono gli esponenti di quel milieu economico-finanziario-culturale, di chiara matrice massonica, che, soffocato o perlomeno domato sotto il regime fascista, rifiorisce con la conquista della penisola da parte degli alleati. […] La scalata alla sinistra italiana da parte dei “liberals” prevede, fin dal principio, la creazione di un giornale che possa evolversi in movimento politico: il 19 febbraio 1949, esce così il primo numero del settimanale “Mondo”, “laico ed anticlericale”, diretto da Mario Pannunzio. Scrive Scalfari: “Il Mondo lanciò quella che sarebbe stata l’idea guida ed il programma politico del gruppo per 18 anni: la formazione di una terza forza politica che bilanciasse i due super-partiti DC e PCI”. Nel 1955, germoglia dal seme del Mondo il Partito Radicale che, non a caso, è dominato dalle stesse personalità “laiche ed anglofile” del settimanale: Pannunzio, Scalfari e Paggi. Scopo del Partito Radicale italiano (in Francia si ripete l’esperimento con Pierre Mendès France) è quello di erodere lo spazio a sinistra occupato dal Partito Comunista, fedele a Mosca, facendo leva, più che sui diritti del lavoro, sui “diritti delle persone”, tanto cari al pensiero massonico. Il 1955, però, è soprattutto l’anno in cui al progetto del Mondo, troppo elitario e autoreferenziale per avere un impatto sulla politica, è affiancato un esperimento editoriale destinato ad avere ben altro successo: il settimanale l’Espresso. […]  Un settimanale nazionale, che faccia molti “scoop” comodi ai poteri atlantici, colpendo ora la DC, ora l’ENI, ora qualche fazione avversa, ora lo Stato-imprenditore, ora pungolando il PCI. […]

 

 “L’incontro tra noi e Adriano Olivetti fu uno di quei fatti del tutto occasionali, assolutamente non prevedibili nell’economia d’un destino di gruppo, eppure determinanti come pochi altri incontri sono stati nei 35 anni di questa vicenda. Se non fosse avvenuto in quel momento e in quelle circostanze, probabilmente l’Espresso non sarebbe mai nato e il viaggio dei liberali nel frastagliato arcipelago della vita italiana avrebbe dovuto inventarsi altri vascelli e forse seguire un diverso itinerario”. Perché proprio Adriano Olivetti, “il mago”? […] in stretto contatto con i servizi segreti inglesi già durante la guerra (nome in codice “Brown”), vicino ad esponenti del Partito d’Azione come Ferruccio Parri, sostenitore delle idee euro-federaliste di Altiero Spinelli, Olivetti è pienamente ascrivibile a quel milieu dell’alta borghesia “laica” (cioè iniziata alla massoneria) e anglofila. Di più. Scalfari lo definisce “il mago”, perché Olivetti, come Mattioli, appartiene a quel mondo occulto-esoterico (messianesimo ebraico, divinità femminili, astrologia, dottrine di George Gurdjieff e Carl Jung, etc.) che conta tra le sue fila i massimi rappresentanti dell’establishment italiano “laico e liberale”. Il Movimento 5 Stelle, attraverso Gianroberto Casaleggio, è sotto quest’aspetto l’ultimo prodotto dell’agente “Brown”, Adriano Olivetti. La permanenza di Olivetti nell’azionariato dell’Espresso, dove ha investito l’ingente cifra di 125 milioni di lire, controllando così il 70% del capitale, è però breve. Trascorre a malapena un anno ed Olivetti decide di spossessarsi delle azioni a titolo gratuito, regalandone il 60% de L’Espresso a Carlo Caracciolo, il 5% ad Arrigo Benedetti ed il 5% ad Eugenio Scalfari. Sorge, a questo punto, un legittimo interrogativo: i 125 milioni erano effettivamente di Olivetti o questi è stato soltanto il prestanome di poteri “liberal” occulti, come la finanza internazionale o i servizi atlantici? Resta il fatto che, nel 1956, il principale azionista de l’Espresso è ora il principe Carlo Caracciolo. […] Un aristocratico, il principe Carlo Caracciolo, nelle cui vene scorre il miglior sangue dell’alta società anglofila e liberal.

 

Subentrano gli anni ‘60 e l’Espresso conduce, ovviamente, battaglie dal marcato sapore atlantico: contro l’ENI di Enrico Mattei (“Avversò costantemente i liberali ed i repubblicani, in quanto partiti da lui considerati padronali e filoamericani”, “L’inquinamento dei partiti comincia da lui”) e di Eugenio Cefis (“il nostro gruppo cercò di fermare o quantomeno di rallentare la marcia verso il potere di Eugenio Cefis e del vasto sistema di alleanze che a lui facevano capo”), contro “il circuito perverso DC-aziende di Stato-governo”, contro Aldo Moro (“noi liberals vivemmo Moro, per tutti gli anni del centro-sinistra, dal ‘63 al ‘70 e anche oltre, come un avversario, il grande saponificatore”). I meriti de L’Espresso sono riconosciuti dall’establishment atlantico […] Il successo dell’Espresso, che cavalca l’inarrestabile laicizzazione della società (divorzio, aborto, obiezione di coscienza, femminismo), è indiscutibile. Affinché, però, i “liberals” possano scalare la sinistra italiana, ancora occupata dal monolitico e filo-sovietico PCI, occorre fare il grande salto, dal settimanale al quotidiano: solo con un simile strumento, sarà possibile insidiare l’Unità e traghettare progressivamente Botteghe Oscure da Mosca verso Washington.  Scrive sempre Scalfari: “I simpatizzanti o addirittura i militanti del PCI avevano il loro giornale di partito, ma i mutamenti in corso nella società e di riflesso nel partito rendevano quella sola lettura sempre più insufficiente e insoddisfacente. Infatti, la gente comunista non se ne accontentava e risultava chiaro dai sondaggi d’opinione che molti di loro erano disponibili ad acquistare un secondo giornale, oltre all’Unità”. Dove trovare i fondi per lanciare il quotidiano, 5 miliardi di lire, di cui l’Espresso può metterne al massimo la metà? Scalfari e Caracciolo trovano un socio della Mondadori di Mario Formenton, proprietaria del settimanale, anch’esso “progressista” a suo modo, Panorama: il 14 gennaio 1976 nasce così La Repubblica. […] Scalfari, poco prima del lancio di Repubblica, nel settembre 1975, incontra personalmente Enrico Berlinguer, illustrandogli i suoi piani verso il PCI: “nessun pregiudizio ideologico, rifiuto di ogni ghettizzazione e discriminazione, nostra propensione per un’ipotesi di alternativa di sinistra rispetto al suo programma di compromesso storico”. La Repubblica, insomma, deve allontanare il PCI sia dalla Democrazia Cristiana che da Mosca, per avvicinarlo a Washington: l’omicidio Moro (che avrebbe voluto pilotare l’ingresso dei comunisti al governo, sedendo al Quirinale) ed il quasi concomitante viaggio di Giorgio Napolitano negli Stati Uniti (primavera dl 1978), completano la manovra. “A partire dal 1979, si può dire che il segretario del PCI avesse scelto Repubblica quale sede privilegiata per esporre il suo pensiero, a parte ovviamente l’ufficialità del giornale del PCI.” Eliminato Moro dalla corsa verso il Quirinale, rimane però ancora l’insidia di Giulio Andreotti: il caso Gelli-P2, ampiamente cavalcato dal Gruppo l’Espresso, spegne definitivamente i sogni presidenziali del Divo Giulio. Nonostante la tiratura di Repubblica aumenti, i conti faticano a tornare, tanto che a metà degli anni ’80 il Gruppo l’Espresso è in una situazione tecnica di fallimento: entra così in scena Carlo De Benedetti, destinato, dopo la “guerra di Segrate” e la spartizione della Mondadori con Silvio Berlusconi, a diventare l’azionista di riferimento del gruppo, “l’Editore”. […] Gli anni ‘80 sono dominati dalla figura di Bettino Craxi: socialista, filo-arabo, attento agli interessi nazionali e, perciò, “fascista” se non “nazional-socialista” tout court, La Repubblica, ovviamente, guida l’opposizione al segretario del PSI. […] Tangentopoli spazza via il Pentapartito: l’establishment euro-atlantico ha deciso che sarà la sinistra a guidare la stagione delle privatizzazioni e l’ingresso dell’Italia “in Europa”. La Repubblica ha dato il proprio determinante contributo al risultato, fagocitando progressivamente il PCI, ora PDS, sino a dettarne la linea. L’ingresso in politica di Silvio Berlusconi scatena, nel 1994, una guerra destinata a durare 25 anni: la Repubblica è il campione dell’antiberlusconismo e, di conseguenza, il campione della sinistra. La scalata al campo progressista, iniziata nel lontano 1976, ha ottenuto un tale successo che l’editore del giornale-partito, Carlo De Benedetti, è anche la “tessera numero 1” del Partito Democratico che nasce nel 2007: si tratta, proprio come sognato da Scalfari trent’anni prima, di un grande “partito radicale” che, accantonati i diritti del lavoro, difende soltanto più “le libertà personali” (femminismo, omosessualità, droga, aborto, immigrazione etc.). La simbiosi tra il Gruppo l’Espresso ed il Partito Democratico è tale che le sfortune del secondo si ripercuotono anche sul primo: La Repubblica, sostenendo prima l’esecutivo Monti, poi quello Renzi ed infine quello Gentiloni, perde lettori allo stesso ritmo con cui la sinistra perde consensi. Giovani (ormai demograficamente marginali) e “lavoratori”, due colonne portanti della sinistra e del pubblico di Repubblica, non votano più PD, né leggono una rivista del Gruppo l’Espresso: l’enorme massa del disagio sociale si rifugia nell’astensionismo, nei partiti di destra o nel Movimento 5 Stelle, creato ad hoc dagli stessi poteri che nel 1955 avevano incoraggiato la nascita del settimanale l’Espresso. I valori “liberali”, inoltre, hanno talmente impregnato la società che persino il modernista Jorge Mario Bergoglio, intima conoscenza di Eugenio Scalfari, li promulga da San Pietro. Non ha torto, l’Ingegnere De Benedetti, a volersi disfare della Repubblica: la sua funzione storica è, oggettivamente, esaurita.

 

 Federico Dezzani

 

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