Le origini non "di sinistra" del socialismo

13 febbraio 2018

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Da Rassegna di Arianna dell’11-2-2018 (N.d.d.) 

 

I manuali accademici distinguono principalmente quattro grandi correnti all’interno del pensiero politico contemporaneo: sinistra moderata o riformista, sinistra radicale o massimalista, destra moderata o liberal-conservatrice e infine destra socio-radicale. Secondo tale definizione il socialismo, in particolar modo le sue correnti radicali come l’anarchismo e il comunismo, rientrerebbero nella seconda categoria costituendo l’ala estrema della sinistra tanto che i due termini costituirebbero un binomio inscindibile. La tesi secondo la quale la sensibilità socialista sia legata in qualche modo alle dottrine della sinistra è un’idea indotta che risale sostanzialmente all’affaire Dreyfuss, conflitto politico e sociale consumatosi come è noto in Francia alla fine dell’Ottocento. Sino a quel momento, il côté gauche, come lo si chiamava all’epoca, si definiva come il partito del Progresso, della Scienza e della Ragione in opposizione alla “destra”, la quale rappresentava tutti coloro i quali si ponevano come obiettivo di restaurare, in toto o in parte, le istituzioni dell’Ancien Régime e il potere temporale della Chiesa Cattolica. La sinistra si è sempre presentata nella storia, come l’unica vera erede legittima dell’Illuminismo, e a questo titolo, come avanguardia più decisa di tutte le modernizzazioni concepibili, sia di carattere tecnologico, economico, politico e morale.

 

Al contrario la sensibilità socialista ha origini diverse se non opposte. Essa si formò veramente solo a partire dall’inizio del XIX secolo, dapprima attraverso le molteplici lotte degli operai inglesi e irlandesi contro i modi di vita degradati loro imposti dalla prima modernizzazione industriale. Il progetto socialista è sempre stato orientato, fin dalla sua nascita, dal desiderio che avevano i primi lavoratori moderni di proteggere, contro gli effetti disumanizzanti dell’allora nascente capitalismo, un certo numero di forme di esistenza comunitaria che essi intuivano essere l’orizzonte culturale indispensabile di qualsiasi vita umana degna di questo nome. Il movimento operaio si pose quindi sin dalle sue origini come forza indipendente sia nei confronti della borghesia conservatrice e dei “reazionari” che dei “repubblicani” e di altre forze di sinistra. Ovviamente, l’aspirazione a conservare «un mondo comune», per dirla con Hannah Arendt, si poneva in contrasto tanto nei confronti dei privilegi di casta legati alle gerarchie dell’Ancien Régime – privilegi conservati in altra forma dalla borghesia liberale – quanto nei confronti dell’individualismo della filosofia dei Lumi e la sua apologia dei valori mercantili già così ben criticati da Rousseau. Non è un caso che il termine “socialismo” sia stato coniato da Pierre Leroux (1797 – 1871) per indicare il contrario dell’individualismo assoluto. I primi socialisti dunque non sembrano essere avversari del passato. Più esattamente essi distinguevano molto bene ciò che, nell’Ancien Régime, rientrava nell’ambito della dominazione gerarchica, da loro rifiutato, e ciò che dipendeva dal principio “comunitario” (la Gemeinwesen di Marx). […] La sinistra così come la conosciamo oggi (o almeno come l’abbiamo conosciuta fino al 1989-1991), non è stata altro che il risultato di un compromesso storico particolarmente precario sorto in Francia nell’ambito dell’affaire Dreyfuss tra il liberalismo progressista – all’epoca essenzialmente incarnato dal partito radicale – e il movimento socialista ufficiale. Compromesso chiaramente dettato dalla minaccia, a quel tempo quanto mai reale, rappresentata dalle forze clericali, monarchiche e reazionarie. È questo compromesso storico che costituì dunque l’evento fondatore della sinistra del ventesimo secolo.

 

Per far capire ulteriormente l’infondatezza della tesi secondo la quale il socialismo trovi le sue origini nella sinistra non è forse inutile ricordare che le due repressioni di classe più feroci, e dunque più pesanti sul piano delle vittime, che si sono abbattute nel XIX secolo sul movimento operaio francese (con il plauso – ça va sans dire – della destra monarchica e clericale) sono state ogni volta decise da un governo liberale o repubblicano (dunque di “sinistra”, nel senso stretto della parola). Innanzitutto quella ordinata da Louis-Eugène Cavaignac, all’epoca delle giornate di giugno del 1848 (Cavaignac sarà del resto il principale candidato di sinistra alle elezioni presidenziali di dicembre – il che spiega in parte il voto di molti operai parigini per Luigi Napoleone Bonaparte). E poi quella, ancora più spietata, diretta da Adolphe Thiers contro la Comune di Parigi nel maggio 1871. […]

 

Né Marx né Engels, non più delle altre grandi figure fondatrici del movimento socialista, hanno mai pensato di definirsi di “sinistra”. […] L’unico uso sistematico che Marx abbia mai fatto dell’opposizione destra/sinistra è sempre stato strettamente filosofico. Si trattava allora (e Marx non faceva che riprendere una terminologia già consacrata) di distinguere gli hegeliani “di destra”, fautori del “Sistema”, dagli hegeliani “di sinistra” fautori del “Metodo”. Tale uso filosofico si ritroverà, in una certa maniera, nel vocabolario leninista (e poi maoista) per designare i due tipi possibili di deviazione filosofica di una “linea giusta” – la “deviazione di sinistra” (o “sinistrorsa” e “settaria”) e la “deviazione di destra” (o “opportunista” e “revisionista”). Per il resto è evidente che Lenin non ha mai chiesto ai lavoratori di fondersi in una “unione della sinistra” qualsiasi – unione che, secondo lui, avrebbe messo il movimento operaio “a rimorchio” della borghesia – e nemmeno, a maggior ragione, in un qualunque “blocco repubblicano”. Sia Marx sia Engels nutrivano una profonda stima per alcuni critici romantici del capitalismo industriale, nei cui confronti avevano un indiscutibile debito intellettuale. Certo, nel Manifesto del Partito Comunista (1848) essi rifiutavano come “reazionario” qualunque sogno di tornare all’artigianato o ad altri modi di produzione precapitalistici e celebrarono il ruolo storicamente progressista del capitalismo industriale, che non soltanto aveva sviluppato su scala gigantesca e senza precedenti le forze produttive, ma aveva anche creato l’universalità, l’unità dell’economia mondiale, presupposto essenziale per la futura umanità socialista. Elogiarono il capitalismo perché aveva lacerato i veli che nascondevano lo sfruttamento nelle società precapitalistiche, ma è un elogio che comportava una punta di ironia: introducendo forme di sfruttamento più brutali, più esplicite e più ciniche, il modo di produzione capitalistico avrebbe favorito lo sviluppo della coscienza e della lotta di classe degli oppressi. L’anticapitalismo di Marx non mirava all’astratta negazione della civiltà industriale (borghese) moderna, ma alla sua Aufhebung, cioè al tempo stesso alla sua abolizione, la conservazione delle sue più grandi conquiste e il suo superamento da parte di un modo di produzione superiore. Tuttavia a partire dagli anni ’70 del XIX secolo e fino alla morte nel 1883, Marx cominciò a mettere in forse i risultati delle sue opere precedenti e a nutrire seri dubbi sulla possibilità di una rivoluzione proletaria in Occidente. Fu in tale contesto che pur senza condividere i presupposti ideologici dei Narodniki, il Moro di Treviri iniziò a supportare l’idea che la comunità russa tradizionale (obščina) avrebbe potuto far saltare alla Russia la fase storica del capitalismo e approdare direttamente al comunismo muovendo da quella dimensione collettiva della vita che connotava da secoli la storia rurale del paese. Come scriverà esplicitamente nella lettera dell’8 marzo 1881 alla populista russa Vera Zasulič, «questa comune è il fulcro della rigenerazione sociale in Russia. Ma perché possa svolgere tale funzione, bisognerebbe dapprima eliminare le influenze deleterie che l’assalgono da ogni parte, e poi garantirle le condizioni normali di uno sviluppo spontaneo». Marx insisteva, beninteso, sulla necessità che la comune agraria si appropriasse delle conquiste e delle tecniche della civiltà industriale europea, ma la sua analisi coincideva comunque in larga misura con la scommessa Narodnik sulla possibilità di risparmiare alla Russia i tormenti della modernità.

 

Il compromesso storico sorto all’epoca dell’affaire Dreyfuss tra la borghesia progressista e il movimento socialista venne a rompersi definitivamente con gli eventi del maggio del ’68 quando i fondamenti storici della destra clericale, monarchica e reazionaria scomparirono progressivamente in conseguenza del dirompere di quel «nuovo spirito del capitalismo» di cui hanno parlato i sociologi Luc Boltanski e Éve Chiapello. Una volta che tale instabile configurazione ideologica ha rinunciato a conservare nel suo programma ufficiale la critica radicale del capitalismo moderno essa si è trasformata in una semplice macchina politica destinata a legittimare, in nome del “progresso” e della “modernizzazione”, tutte le fughe in avanti della civiltà liberale. Risulta dunque evidente che in tale ruolo la sinistra è infinitamente meglio attrezzata dal punto di vista intellettuale di tutte le destre del mondo. […] La domanda che dobbiamo porci dunque è la seguente: coloro che credono ancora nella possibilità di edificare una società libera, ugualitaria e solidale o, in altri termini, coloro che si riconoscono nell’ideale socialista, possono fare ancora affidamento sulla “sinistra”? La risposta è no, non possono. In un suo ben argomentato studio il filosofo e sociologo francese Jean-Claude Michéa ha sostenuto la tesi secondo cui la sinistra oggi, avendo completamente abbandonato le lotte sociali e politiche che furono del movimento operaio, si è riconfigurata come completamente organica al capitalismo e permanentemente in balia di quello che lui ha definito «il complesso di Orfeo» ovvero non riesce a guardarsi indietro considerando tutto ciò che è vincolato alla tradizione e al passato come qualcosa di intrinsecamente dannoso da cui prendere congedo. La sinistra nel suo odierno divorzio dalle classi popolari fa suo il progetto di “progressismo capitalistico”. In nome del “progresso” il capitale oggi continuamente dissolve e destruttura ogni legame tradizionale, ogni radicamento culturale, simbolico, spirituale e territoriale con l’autorità dell’«eterno ieri» per citare Max Weber. Se l’ideale socialista oggi vuole essere rivitalizzato non va più inteso come lotta di classe o dittatura del proletariato, bensì come common decency (secondo la fortunata formula di George Orwell), ovvero il concetto secondo il quale una vita compiuta non si misura dalla quantità di potere e di denaro che si riescono ad accumulare durante la propria esistenza. Un socialismo quindi umanistico, comunitario e tradizionale che preveda un approccio municipalista e confederale all’economia; cosa ben diversa da una sua centralizzazione in imprese “nazionalizzate”, da una parte, o la sua riduzione a forme di capitalismo collettivista “controllato dai lavoratori”, dall’altra. La democrazia economica, nel suo senso più profondo, significa, secondo quanto ha sostenuto l’anarchico statunitense Murray Bookchin «l’accesso libero e democratico ai mezzi di vita, la garanzia di affrancarsi dal bisogno materiale, e non certo il coinvolgimento operaio nelle faticose attività produttive che faremmo meglio a lasciare alle macchine. Che la democrazia economica sia stata reinterpretata per significare proprietà delle maestranze o che la democrazia del lavoro sia diventata compartecipazione operaia alla gestione industriale, invece che libertà dalla schiavitù della fabbrica, del lavoro razionalizzato e della produzione pianificata, è un impudente stratagemma che ha purtroppo mietuto insperati successi anche in ambiti radicali».  Come ha osservato correttamente a suo tempo Georges Bernanos «esiste una borghesia di sinistra e una borghesia di destra. Non c’è invece un popolo di sinistra e un popolo di destra, c’è un popolo solo».

 

Gabriele Repaci

 

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