Meno pronti e pił proni

23 Marzo 2018

 

Già di per sé quella dell’insegnamento è forse la pratica più difficile. Si sa che non si tratta di un mestiere, di una professione, ma davvero di una vocazione, di una missione. Sempre che si intenda questo termine nel suo significato più vero, cioè quello di “in-segnare”, segnare dentro. “Segnare di dentro” una persona significa tutt’altro che passargli nozioni, contenuti, schemi già formati. Significa invece “ferire” il discente scalfendo le sue precomprensioni e stimolare, tramite il sanguinamento, un’autoguarigione che però accresca la sua personalità, senza indirizzarla. Questa accezione dell’insegnamento sembrerebbe essere ricompresa nell’attuale impostazione della didattica in Italia, la quale punta sulle competenze invece che sui contenuti, anche in considerazione del fatto che i contenuti nell’era digitale sono sempre disponibili in tempo reale, addirittura in sovrannumero, mentre va scemando proprio la capacità di manipolarli, giustapporli, collegarli, utilizzarli in forma critica per la soluzione dei problemi nel presente. Questa nuova scuola sembrerebbe andare, quindi, nella giusta direzione, nonostante la resistenza opposta da un corpo docente che, per omeostasi, mal si presta a questo cambio di paradigma che ricorda un po’ “la rivoluzione copernicana” di kantiana memoria e si ostina a presentarsi in classe, anno dopo anno, rileggendo i paragrafi del libro di testo.

 

Ma ci sono dei problemi, problemi seri, anche per chi a tale sviluppo delle competenze guarda con interesse e con favore. Io insegno filosofia e storia nei licei, parlo quindi per esperienza personale ma da un punto di vista che è parziale, però credo che la mia sia l’esperienza di tutti gli insegnanti, soprattutto quelli delle discipline che si occupano di pensare il mondo degli uomini – e non dei numeri, degli elementi o dei file - in maniera critica. I problemi, tralasciando la contrazione delle ore a disposizione per le discipline di cui mi occupo, sono rappresentati da una reale, pratica, tangibile impossibilità di fare lezione. Nella “buona scuola” lo spazio di manovra degli insegnanti è ridotto, direi menomato, dalle incombenze extracurricolari con cui si è obbligati a fare i conti. Non esagero affatto dicendo che il numero delle ore nelle quali si è a contatto coi ragazzi è pressoché dimezzato rispetto a quanto appare sulla carta. Tra un corso sulla sicurezza o sulla legislazione del lavoro, tra lo stage in azienda e l’orientamento in uscita, tra un corso improntato ai principi della Pnl che affronta la maniera “giusta” di porsi in azienda e un potenziamento coatto qualsiasi da svolgersi obbligatoriamente in mattinata, tra una gita sempre meno scolastica e una visita ad una facoltà in vista delle iscrizioni, tra le assenze per un test d’ingresso alle università a numero chiuso e le mille altre pastoie burocratiche che accompagnano ciascuna di queste attività obbligatorie… materialmente si passa sempre meno tempo con i ragazzi. Cosa significa questo? Solo per fare un esempio tra i mille possibili, significa ad esempio essere costretti a tacere sulle questioni storiche più vicine a noi oppure a parlarne senza che si sia potuto affrontare gli eventi che di queste sono alla base. Il risultato è quello di consegnare alla società individui meno pronti e quindi più proni. Per non parlare poi del ruolo dell’autorevolezza del docente, la quale passa per forza per una frequentazione assidua che gli consenta di fornire agli alunni anche un modello esperienziale, esemplificativo. Quest’ultima forma dell’educazione viene sempre più scemando e ad essa si sostituisce l’idea dell’intercambiabilità degli attori del processo didattico ed educativo. Ovvero: “questa cosa, che me la dica tu o un altro, o la rete, o la televisione, è in fondo la stessa ed è lo stesso. Si tratta infatti di teorie ferme, infeconde”. Magari l’allievo non lo pensa esattamente in questi termini, ma il concetto è questo. Per coloro che fanno della lotta alla specializzazione, della ricerca di un approccio olistico all’esistenza e ai suoi temi, questa situazione è penosa, demotivante, devastante. Immagino che bravi insegnanti, di fronte all’impossibilità di dar corso a quanto sanno e vogliono fare, scelgano di ritirarsi in silenzio dalla missione e mettersi a fare stancamente la professione, per ritirare la paga a fine mese. L’accento sulle competenze e sul “saper fare” si tramuta quindi in una atona dispersione delle voci, le quali verranno ancor più messe in sordina dai progetti quali quelli del liceo in quattro anni, nel quale la compressione sarà deleteria. Ai danni dei ragazzi, ignari ovviamente di quanto accade loro, si perpetua poi quel processo per il quale contano i voti, i crediti, i coefficienti, i numeri, anche in un’ottica competitiva che replica quella professionale, nella quale andranno a scannarsi nella realtà del lavoro flessibile. E tutto questo avviene mentre le scuole-azienda ormai sono costrette a promuovere quasi tutti.

 

Ma, pensiamoci, poteva questa epoca del pensiero unico potenziare davvero la capacità critica dei discenti? Davvero le élite politico-economiche avrebbero permesso che gli alunni sviluppassero una forma mentis che sarebbe stata micidiale per il loro stesso perpetuarsi? 

 

Matteo Simonetti

 

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