Non debito pubblico ma credito alla società

14 Aprile 2018

 

Da Appelloalpopolo dell’11-4-2018 (N.d.d.) 

 

Quando si racconta una storia, anche ai nostri figli, abbiamo un determinato modo di raccontarla. Ogni storia ha il suo modo. Il motivo sta principalmente nel fatto che vogliamo che la storia faccia riflettere su determinate cose, muova certi angoli dell’anima, lasci una determinata impressione, buona su certi aspetti, fatti o personaggi, meno su altri. Non è diverso per le storie che ci raccontano in televisione e sui giornali: chi racconta la storia vuole esattamente le stesse cose. Non c’è bisogno di pensare a complotti o chissà cosa; dal momento che chi racconta la storia sono alcuni e non altri, la storia esce in un certo modo e non in un altro. E dal momento che questi rappresentano tutti i medesimi interessi, la storia esce identica, sempre la stessa, con minime sfumature, come se a raccontarla fosse lo stesso genitore allo stesso figlio. La storia che ho in mente adesso è quella che narra del credito al consumo e del debito pubblico. Già i personaggi sono tratteggiati in modo perfetto.

 

Credito è attivo di bilancio (attivo, azione, efficienza), parte buona, dimostrazione di sana e robusta costituzione economica, è parola che puoi pronunciare con sicurezza, col sorriso sulle labbra, senza paura. Se il credito è al consumo l’immagine si arricchisce moltiplicando il suo contenuto positivo. Il credito al consumo ti fa vivere appieno la nuova natura di consumatore che la società ti ha assegnato. Potrai comprare quel televisore 4K 65 pollici, godere di quella vacanza ai Caraibi o del SUV che hai sempre sognato. Il credito al consumo è di per sé bello, in questa storia. Debito è passivo di bilancio (passivo, stasi, blocco, impotenza), cosa di cui vergognarsi, da non far sapere in giro, peccato da espiare. Pubblico, diventa poi sinonimo di inefficienza, burocrazia, lentezza; pare quasi che la parola stessa lo generi, il debito.

 

Se proviamo a guardarli meglio, questi personaggi, saltano subito all’occhio un po’ di contraddizioni e di forzature nella narrazione. Il credito al consumo. Sì, il credito; ma se il credito è al consumo, il debito è il tuo. Il tuo come individuo singolo, con un lavoro probabilmente precario e una famiglia da mantenere; il credito invece, è di una banca. Hai poi mai letto che devi rispettare un rapporto debito/reddito? O che devi stare attento a non vivere sopra le tue possibilità? Che il debito che contrai, tu, verso una banca, ricadrà sui tuoi figli? Che devi essere virtuoso? No? Nemmeno io l’ho mai letto. Eppure è vero, per te. Pensa, non sei neanche uno Stato. Che tu ci creda o no, non hai una banca centrale che in teoria potrebbe crearti i soldi con cui pagare i debiti. Non essendo uno Stato, non puoi neanche dotarti di quegli istituti normativi tali da rendere il tasso di interesse sul tuo debito, completamente sostenibile. Eppure nessuno dice niente, a te. Pensa, i tassi di interesse che paghi sono multipli dell’inflazione, ma non pare che qualcuno si preoccupi di avvisarti o ammonirti. Mi pare invece, perché a me arrivano, che ti arrivino a casa dei volantini in cui i soldi te li offrono a tassi agevolati (agevolati? imperdibili!) del 6-7% annui. Tassi sicuramente convenienti, non è vero? Per loro che li riscuotono sicuramente. Ti avvertono? Ti fanno sermoni? No, non te li fanno. Chissà perché… Noi siamo avidi di questo credito, lo vogliamo, ci adontiamo se non ci viene concesso. Lo cerchiamo in tutti i modi. Non sempre è una ricerca voluttuaria, perché il bisogno è reale. Il loro credito, privato, che è il tuo debito, è in fin dei conti l’unico modo con cui puoi andare avanti in questa società fatta di svalutazione dei salari, povertà dei lavoratori, precarietà. La lotta per la sopravvivenza contempla giornate passate a cercare di abbassare un interesse su un mutuo dello 0,1%. Le tue giornate, il tuo tempo, la tua vita.

 

E il debito pubblico? Quello non serve per te come consumatore. Serve invece per te, cittadino, lavoratore, uomo, donna, padre o madre di famiglia. Con quello puoi avere un ospedale vicino a casa, mantenere un punto nascita. Puoi avere una giustizia dotata di organici e mezzi per garantirla in tempi idonei. Puoi mettere in sicurezza il territorio da eventi catastrofici. Puoi avere scuole dignitose con organici di docenti preparati. Puoi pagare la pensione ai lavoratori ad un’età che consenta loro di vivere serenamente e dignitosamente la vecchiaia. Puoi comprare alle madri (e ai padri) il tempo necessario per prendersi cura dei figli. Sostenere i settori economici strategici della nazione, aziende, figuriamoci, che pagano le tasse in Italia.  E pensa: contrariamente al SUV, al televisore o al tagliaerba, che con quasi assoluta certezza vanno a pagare e creare lavoro cinese o coreano o tedesco, tutte quelle cose elencate sopra, creano lavoro italiano e pagano lavoratori italiani; magari consentono di tenere in Italia tanti giovani oggi costretti a emigrare dopo l’università; probabilmente permettono alle famiglie di avere figli, tanti figli e non allo scopo di “pagarci le pensioni”. In una parola, il debito pubblico, crea ricchezza privata e la crea in modo ben distribuito, diminuendo le disuguaglianze economiche e sociali. Con quella ricchezza, che è risparmio e sicurezza del futuro, potresti anche comprarti un televisore, ma col tuo salario e col tuo risparmio, non con i debiti verso le banche. Eppure la storia che ci raccontano dice questo: che il debito pubblico è brutto; che il debito pubblico deve essere ridotto, e non negli interessi pagati su di esso, ma facendo in modo che le spese dello stato siano al di sotto delle entrate. Penso che capiate cosa significa questo. Significa un ospedale in meno, una scuola inagibile in più, uomini e donne costrette a lavorare fino alla soglia dei 70 anni, strade fatiscenti e pericolose, fiumi che esondano e boschi che bruciano, giovani che fuggono, figli che non nascono… Ma continuano a dire che è brutto e va ridotto, annientato, spazzato via, temuto come la peste. Come mai? Come mai, riflettete su questo, quando ci dicono che lo Stato deve comportarsi come una famiglia, attribuiscono alla famiglia quel comportamento economicamente virtuoso che poi non chiedono alle famiglie stesse, esortandole a fare esattamente l’opposto? Come mai dimenticano di dire che lo Stato, contrariamente alle famiglie, in tutto il mondo, è dotato di una Banca Centrale che fornisce al governo il fabbisogno di denaro per fare tutte quelle belle cose utili, acquistando titoli emessi dal governo nella stessa valuta? Perché si dimenticano di ricordare che anche da noi funzionava così? Che eravamo dotati di istituti e leggi che consentivano di finanziare le spese dello stato in questo modo a tassi di interesse reali negativi? Perché non ci rammentano che uno Stato che emette debito nella valuta che controlla non può fare mai default? Perché? Già, perché… Come un usuraio ricerca prede vulnerabili o, mediante i suoi ambienti, si garantisce la sua vulnerabilità, portandogli via i mezzi di sussistenza, così il capitale e i gruppi finanziari si assicurano che lo stesso accada agli Stati. Togliendo allo Stato la sovranità monetaria (che è la possibilità di emettere debito sempre solvibile perché emesso nella propria valuta) riducendolo a preda, gli usurai della finanza internazionale, complice una classe politica connivente o incompetente, hanno stretto la corda al suo collo, al tuo collo. La corda degli interessi sul debito, diventato improvvisamente rischioso, perché emesso in una moneta estera, ha innescato il ricatto, trasformando l’economia dello Stato in quella di una famiglia. L’usuraio vuole sempre i suoi interessi, quindi l’unica cosa da fare è ridurre le spese correnti. Ho già scritto cosa significa ridurre le spese dello Stato nella parte corrente, in termini di distruzione dei servizi e dello Stato sociale. A cosa è servito, a loro? È abbastanza semplice: a prendersi tutto, con la garanzia che tu facessi il tifo per loro.  Prima le imprese pubbliche, “poco produttive”, “incapaci di stare al passo con le sfide della modernità”, “corrotte e colluse con la partitocrazia”. Poi, ed è la seconda fase, ancora in corso, è la volta dei servizi pubblici, sanità, scuola, previdenza; ridotti i finanziamenti, lasciati andare alla deriva, spolpati, malfunzionanti, carenti di personale e mezzi, sono i cittadini a invocare la mano privata. Ma privato vuol dire che chi ha i soldi può avere quello che vuole, pagando. Chi non li ha, perde tutto. Oppure, si indebita, lui, personalmente.

 

Eravamo partiti da lì, mi pare. E questo è il secondo obiettivo. Il primo era spogliare lo Stato dei suoi beni, delle sue aziende e sostituirlo come fornitore di servizi essenziali per poterci lucrare sopra. Il secondo sei tu. Il tuo risparmio. Per perseguire questo secondo obiettivo entra in scena un altro attore della storia narrata: le tasse. Perché in uno Stato la cui economia è ridotta ad essere economia domestica, le tasse servono a finanziare il fabbisogno di spesa. Invece, in uno Stato dotato di sovranità monetaria, le tasse non servono a questo: servono a realizzare politiche redistributive (con le aliquote) e a controllare l’inflazione (con il livello complessivo). Pare impossibile anche pensare che non servano a finanziare le spese, visto cosa raccontano le televisioni o gli esperti dagli articoli delle più grandi testate nazionali. Invece è proprio così. Se avete seguito il ragionamento, sapete anche il motivo, ma lo ripeto: i soldi per la spesa pubblica vengono dalla sovranità monetaria e dagli istituti che la regolano. Ma una volta che il cappio è stato stretto, la cessione della sovranità monetaria, il debito emesso in moneta estera, le tasse invece servono proprio per finanziare le spese e sono ovviamente alte, molto alte, talmente alte che non ce la devi fare più a pagarle. Allora ti indebiti, con le banche o verso il fisco, convinto che non ce l’hai fatta perché non sei stato abbastanza bravo e competitivo, maledicendo lo Stato ladro. Perdi tutto, invocando la fine dello Stato. Il cerchio si chiude; secondo obiettivo raggiunto. Questo accade da quarant’anni, in tutto il mondo, in ogni paese la cui ricchezza pubblica o i risparmi dei cittadini vengono messi nel mirino del capitale privato e della finanza.

 

Mi sono chiesto allora cosa succederebbe se la storia, con questi pochi elementi che abbiamo, provassimo a raccontarcela da soli, o semplicemente a prendere il libro e leggerlo, senza permetter loro di intonare le solite cantilene, usare le stesse espressioni, tratteggiare le stesse immagini, sempre le solite. Non è facile, perché anni di favole ci hanno condizionato pensieri e riflessi. Proviamo a fare allora questo esercizio. Smettiamo di parlare di debito pubblico. È inutile e dannoso. Ci fa male anche il suono dell’espressione; non ci riesce smettere di odiare una cosa del genere. Proviamo a chiamarlo “credito alla società”, indipendentemente dalla correttezza tecnica dell’espressione. Pensiamo a questo credito come qualcosa che potremmo avere, noi tutti, nella nostra vita di ogni giorno, senza troppa fatica e ricatti di alcun genere, se solo ritrovassimo la sovranità perduta. Se non riusciamo a non odiare il “debito pubblico”, riusciremo invece ad amare il credito alla società. Amare il credito alla società significa amare la sovranità. Ci libereremo.

 

Iacopo Biondi Bartolini

 

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