Ambiguitą di fondo dell'Italia unita

27 Dicembre 2018

 

Da Rassegna di Arianna del 20-12-2018 (N.d.d.)

 

Uno Stato, per esistere e per avere delle basi solide, non può accontentarsi di essere uno scatolone di popolazioni e un contenitore di interessi economici, grandi o piccoli che siano; non può essere nemmeno, come vorrebbe il liberismo classico, una sorta di agenzia delegata a proteggere le libertà del singolo individuo e a garantire i suoi inalienabili diritti. Deve essere di più, molto di più, altrimenti finirà per sfasciarsi, sanguinosamente come la ex Jugoslavia, o anche in modo del tutto pacifico e civile, come la ex Cecoslovacchia; e non è affatto escluso che il Belgio finisca per fare la stessa fine. Gli Stati, come li conosciamo, sono delle creazioni abbastanza recenti: lo Stato moderno nasce verso il 1300, alla fine del Medioevo, con il consolidamento delle monarchie nazionali, specialmente la Francia e l’Inghilterra. Gradualmente, dalla frammentazione politica, giuridica ed economica del feudalesimo, sono nati questi grossi organismi che solo un po’ alla volta hanno visto l’affermazione territoriale delle rispettive monarchie: ancora alla metà del 1600, per esempio, l’autorità, sul territorio francese, era rappresentata assai più dai grossi feudatarie che dal re. Ci sono voluti altri due secoli, e specialmente l’esperienza della Rivoluzione francese e di Napoleone, perché lo Stato odierno si consolidasse, e ciò avvenne, in Europa occidentale, essenzialmente sulla base della nazionalità. In Europa centrale e orientale, invece, la maggior parte degli Stati erano di origine dinastica, si erano formati come estensioni delle rispettive case regnanti e si erano ampliati per mezzo di matrimoni e unioni personali: tipico esempio l’impero austriaco, che comprendeva undici popoli e aveva la sua idea forte nella fedeltà alla casata asburgica, la quale si poneva come un potere paternalistico e unificante, al di sopra di tutte le identità e le possibili divisioni. Anche l’Impero russo, in una certa misura, si reggeva sul principio monarchico e dinastico, però in esso la nazionalità russa occupava un ruolo centrale: perciò, di fatto, la Russia degli zar si reggeva su un doppio principio, dinastico e nazionale. Ma la Francia, in particolare dal 1792, rappresentava un principio nuovo: non solo il principio nazionale, ma anche quello democratico di stampo massonico. Grazie a Napoleone, alle sue conquiste e alla sua legislazione, tale principio si estese a gran parte dell’Europa; e se è vero che con la Restaurazione molte delle novità introdotte dal modello napoleonico vennero ritirate, è altrettanto vero che molte altre rimasero, perché erano ormai funzionali al processo evolutivo della forma statale stessa. I prefetti, ad esempio, o i licei, come scuole superiori per la formazione della futura classe dirigente; oppure l’anticlericalismo programmatico e il confinamento della realtà religiosa entro un ghetto dai confini ben precisi: tutte queste cose erano state introdotte dai francesi negli Stati conquistati da Napoleone, ma sostanzialmente rimasero anche dopo la sua definitiva sconfitta, nel 1815. L’Inghilterra, da parte sua e sin dalla fine del XVII secolo, rappresentava un’altra idea ancora: la monarchia costituzionale, sul modello del liberalismo. Dunque, nell’Europa del 1914 vengono a confrontarsi almeno tre modelli ideologici e pratici di Stati: quelli basati sul principio dinastico e legittimista, come l’Austria-Ungheria, la Russia e la Germania; quelli basati su quello repubblicano, democratico e massonico, come la Francia; e quelli basati sul principio costituzionale e liberale moderato, anch’esso di stampo massonico, come la Gran Bretagna. Al di fuori del continente, gli Stati Uniti, benché eredi della colonizzazione inglese, rappresentavano il principio democratico e massonico, più sul modello francese che su quello britannico, però, a differenza della Francia, con un legame meno forte col principio di nazionalità, essendo formati da immigrati delle più varie provenienze (anche se la base nazionale era e restava anglosassone); e il Giappone, che era passato direttamente dallo Stato feudale medievale allo Stato moderno di matrice liberale, senza però recidere del tutto le proprie radici e senza rinunciare alla propria specifica identità asiatica.

 

E il Regno d’Italia, nato il 17 marzo 1861, quale idea rappresentava? E quale idea, oggi, rappresenta la Repubblica italiana, nata il 2 giugno 1946? […] Nel 1815 si può parlare dell’Inghilterra o della Francia, per indicare, almeno fino a un certo punto, il popolo inglese e il popolo francese; ma non si può parlare dell’Italia come se fosse la stessa cosa del popolo italiano. Nel 1815 i due partiti che si fronteggiavano in Italia erano sei o sette sovrani restaurati, campioni dell’Antico Regime, con le loro piccole corti e i loro piccoli eserciti, e un pugno di rivoluzionari clandestini, carbonari e membri di altre minuscole società segrete; ma la quasi totalità delle popolazioni (popolazioni, non ancora popolo) non parteggiava né per questi, né, meno ancora, per quelli, per il semplice fatto che non aveva mai partecipato alle vicende politiche. È perfettamente logico, quindi, che l’Italia nata nel 1861, sotto la guida della dinastia sabauda, ma anche sotto la spinta del movimento democratico, non fosse né carne, né pesce. La stessa monarchia sabauda esprimeva un’idea di compromesso: l’idea dinastica, quindi l’Antico Regime, perché i Savoia, in fin dei conti, erano una dinastia che aveva recuperato il trono grazie al Congresso di Vienna; ma anche l’idea democratica, massonica e anticlericale, impersonata dalla Francia, visto che la ”grande guerra”, quella del 1859, era stata fatta, e vinta, al rimorchio della Francia, la quale, a sua volta, era un compromesso fra l’Antico Regime, dinastico e cattolico, e la Rivoluzione, vista l’eredità napoleonica e le modalità plebiscitarie dell’ascesa al trono di Napoleone III. E non è certo un caso che i Savoia, nel 1915, abbiano deciso un colpo di Stato, spingendo Salandra a firmare in segreto il Patto di Londra: avevano capito che la guerra mondiale avrebbe segnato il tramonto delle monarchie legittimiste e che la sola speranza di restare sul trono, per loro, era spostarsi ancor più sul versante democratico e massonico. La stessa manovra e nella stessa persona, cioè Vittorio Emanuele III, i Savoia la tentarono nel 1943-46: traghettare se stessi e il regno nello schieramento democratico, cercando di legittimarsi dalla parte dei vincitori, cioè della democrazia, e disfacendosi del loro imbarazzante passato: non solo la compromissione col fascismo, ma il peccato d’origine del 1861: essere diventati re d’Italia come una dinastia dell’Antico Regime (e infatti Vittorio Emanuele II conservò l’appellativo di “secondo”, come se fosse ancora il re del Piemonte), ma flirtando con i rivoluzionari, i democratici repubblicani. Questa ambiguità di fondo, questa tendenza al voltafaccia, all’opportunismo, è stata ereditata, sin dalla nascita, dalla Repubblica nata il 2 giugno 1946. Una repubblica che si diceva nata da un moto spontaneo di popolo, la Resistenza, e però occultava due fattori decisivi: la conquista militare e la vittoria alleata, che ne faceva una repubblica subalterna, e la guerra civile, che restava uno scheletro nell’armadio, rimuovendo il sangue degli italiani vinti…

 

Francesco Lamendola

 

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