Autocritica distruttiva

28 Dicembre 2018 

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Da Appelloalpopolo del 19-12-2018 (N.d.d.)

 

Recentemente un amico mi ha fatto notare, ragionevolmente, come l’Italia sia stata piena di problemi anche prima dell’ingresso nell’euro (terrorismo, corruzione, mafia, burocrazia asfissiante, ecc.), e che perciò le accuse all’UE e ai suoi vincoli rischino di apparire come mere scuse. Ebbene, non c’è alcun dubbio che l’Italia non era il giardino dell’Eden prima del trattato di Maastricht e che non si trasformerà in una valle di latte e miele il giorno dopo che questo disgraziato esperimento sovranazionale verrà meno. È vero e non c’è ragione per negarlo. E tuttavia confesso anche di averne davvero le tasche piene della costante autosvalutazione, confinante con l’autorazzismo, che permea da quando ne ho memoria la coscienza pubblica italiana. Ho vissuto abbastanza a lungo in altri paesi europei: belli, civili e tutt’altro che privi di magagne e disfunzionalità. Solo in Italia però ho trovato questa perenne disposizione autodistruttiva e rassegnata (“italienischer Selbsthass” [L‘odio di sé’] lo chiamava un amico austriaco).

 

Ora, io capisco che abbiamo avuto il fascismo, e capisco che la tronfia retorica autocelebrativa di quel regime possa aver creato una crisi di rigetto. Però, santo cielo, propria la stessa retorica la si poteva trovare nel colonialismo razzista dell’Inghilterra o della Francia, per tacere delle gaie peripezie della Germania, e tutti hanno superato da mezzo secolo le relative crisi di coscienza. Noi invece abbiamo continuato a pensare che il gioco della critica distruttiva fosse segno distintivo di finezza d’animo e libero pensiero, crescendo così generazioni convinte di abitare nella sentina d’Europa. Un paese che, con tutti i suoi difetti, era comunque riuscito a collocarsi tra i maggiori paesi industrializzati, con uno stato sociale più che dignitoso, un paese che possiede una tradizione culturale tra le prime dieci del pianeta, che vive in un territorio universalmente riconosciuto come benedetto da madre natura, che ha uno dei più grandi patrimoni storici e monumentali del mondo, ecco, questo paese viene costantemente percepito dai suoi abitanti, e dalla sua pensosa intellighentsia, come una sorta di irrecuperabile buco nero, un luogo di smarrimento, perdizione, neghittosità e sciatteria. E naturalmente per un paese a lungo andare accade ciò che capita ad un singolo essere umano: se gli si ripete costantemente che è un buono a nulla finisce per crederci e adeguarsi suo malgrado al ruolo assegnatogli.

 

Il processo che condusse prima al distacco tra Tesoro e Banca d’Italia, poi all’ingresso nell’UE e infine nella moneta unica fu da questo punto di vista emblematico. Una classe dirigente sempre più mediocre, e perciò sempre più convinta dell’irrecuperabilità del paese, ritenne di poterlo ‘rimettere in riga’ imponendogli vincoli esterni di tipo economico e giuridico. Negli anni ’90 era infatti un’idea diffusa, quella per cui delegando sovranità a classi dirigenti altrui (pateticamente idealizzate), il paese ne avrebbe tratto beneficio. Per quanto oggi possa sembrare incredibile, era davvero di smercio comune l’idea che se noi non eravamo in grado di fare i nostri interessi, mettendoci il basto europeo, magicamente altri li avrebbero fatti per noi. Così la miseria umana, intellettuale e morale di quelle classi dirigenti, incapaci di proporre al paese qualcosa di diverso da un’abdicazione, ha inferto danni che neppure il fascismo era riuscito a infliggere: non ha solo impoverito materialmente il paese, ma soprattutto ne ha anche abbattuto profondamente la capacità di reazione. E così, arrivati a questo punto, credo sia giunta veramente l’ora di fare un falò di questo insensato disprezzo di sé. Il nostro paese ha seri problemi, che andranno affrontati con pazienza, fatica e buona volontà. Tuttavia esservi nati è e resta qualcosa di cui essere orgogliosi, così come cercare di contribuirvi dev’essere qualcosa che rende orgogliosi. Può sembrare retorica, ma la verità è che, qualunque cosa vogliamo costruire, è proprio da qui che si parte.

 

Andrea Zhok

 

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