Modernità senza centro

7 Febbraio 2019

 

Da Rassegna di Arianna del 5-2-2019 (N.d.d.)

 

Se dovessimo sintetizzare in una brevissima formula le ragioni per cui la civiltà moderna non è una vera civiltà, ma una anti-civiltà, anzi, per meglio dire, una non-civiltà, potremmo dire così: perché non ha un centro, né una gerarchia di valori, né una rete organica di relazioni fra i suoi elementi simbolici, pratici e morali, vale a dire che non ha saputo o voluto esprime una cultura con carattere sistemico. In breve, è il caos allo stato puro: un coacervo di spinte, tendenze e orientamenti che collidono e si respingono vicendevolmente. Manca, inoltre, una chiara distinzione di attribuzioni. Logico: è stata costruita sul delirio di onnipotenza del singolo individuo; delirio così travolgente da coltivare la pretesa di portare, chi sa come, alla felicità del popolo, anzi, dell’intero genere umano. Come dal super-individualismo possa scaturire il bene comune, è un mistero: e infatti, filosofi come Adam Smith non hanno saputo far di meglio che tirare in ballo una improbabile “mano invisibile” a fungere da raccordo tra le due istanze, quella individualistica e quella sociale. Misero surrogato e scialba contraffazione della Provvidenza della tradizione cristiana. Possiamo anche dire che la modernità non costituisce neppure una cultura, perché le manca l’elemento essenziale dell’ideologia. La parola ideologia si è guadagnata una brutta fama, a torto o a ragione, nell’immaginario collettivo, mentre noi, in questa sede, la usiamo in senso esclusivamente antropologico, come il sostrato vitale che funge da elemento connettivo di tutte le manifestazioni della vita intellettuale, spirituale e materiale. Quindi, affinché ci sia una cultura, bisogna che ci sia una ideologia; niente ideologia, niente cultura, ma bensì manifestazioni culturali slegate e caotiche, sovente contraddittorie. Gli elementi culturali di una civiltà sono tutti interrelati, sono tutti funzionali l’uno all’altro; fanno parte di una struttura, come faceva osservare Lévi-Strauss, e ciascuno di essi ha la sua funzione in relazione a tutti gli altri, anche se accade che alcuni di essi sopravvivano per un certo tempo anche dopo il venir meno della loro funzione originaria. Per forza d’inerzia, se così si può dire. Ora, nella cosiddetta civiltà moderna manca la relazione reciproca, e quindi armoniosa, fra gli elementi culturali, appunto perché manca una ideologia. Non basta dire che l’ideologia della modernità è il progresso – o la ragione, o la scienza, o la tecnica – perché il progresso è, semmai, uno strumento per realizzare un determinato fine: che potremmo designare, sulla scia dei philosophes, la felicità generale. L’ideologia si rispecchia nelle funzioni sociali che una civiltà attribuisce ai suoi membri. Come ha mostrato Georges Dumézil, a partire dal 1933, coi suoi studi geniali, i popoli indoeuropei hanno sviluppato le loro società su uno schema tripartito: religione, esercito ed economia; perciò in esse si trovano le tre caste dei sacerdoti, dei guerrieri e dei lavoratori manuali. Questo è uno schema tipicamente indoeuropeo; nella civiltà cinese, ad esempio, lo schema delle funzioni sociali è di tipo binario. Ad ogni modo, binario, tripartito o altro, uno schema culturale basato sulla distinzione delle funzioni sociali esiste dovunque: in ogni società tradizionale esiste una distinzione di attribuzioni, concepita in maniera che esse non si ostacolino a vicenda, ma, al contrario, che procurino il maggior benessere all’intera comunità (anche se, è inutile negarlo, le vicende storiche proprie di ogni popolo possono portare a delle degenerazioni, per cui una casta finisce per usurpare attribuzioni non sue, coi relativi poteri, e quindi per rivelarsi dannosa al bene dell’insieme). Sorge perciò la domanda: su quale schema si basa la distribuzione delle attribuzioni, nella cosiddetta civiltà moderna e nelle società che da essa traggono origine e ispirazione, come quelle dei popoli europei e degli Stati Uniti, del Canada, dell’Australia e della Nuova Zelanda, nonché, in una certa misura, quelle dei popoli latino-americani e del Giappone? […]

 

A noi sembra evidente che la cosiddetta civiltà moderna si è sviluppata sulla base di un duplice equivoco: che una civiltà possa nascere in aperta polemica verso la civiltà da cui prende le mosse, e che possa sostenersi sulla base delle sole strutture materiali, specialmente economiche, considerando una specie di lusso la dimensione spirituale, da riservare a chi ne abbia tempo e voglia, ma senza che ciò sia considerato necessario alla vita generale; anzi arrivando, in certe epoche e situazioni, a considerare tale dimensione come inutile o dannosa, e come una forma di parassitismo sociale l’esistenza di una categoria di persone che si dedicano al culto del sacro. In altre parole, una civiltà che nasce non tanto per affermare se stessa, quanto per negare la propria tradizione e le proprie radici, come ha fatto l’umanesimo con il medioevo, è una civiltà che nasce morta; e una civiltà che dedica quasi tutte le sue energie allo sviluppo degli aspetti materiali, economici e tecnologici, e quasi nessuna attenzione alla dimensione spirituale, sia quella propriamente religiosa, sia tutte quelle di tipo spirituale e non finalizzate al profitto – creazione artistica e musicale, speculazione filosofica, eccetera – è una civiltà che non si cura di gettare delle solide basi, ma sceglie di vivere alla giornata, così come viene, badando solo al presente, immemore del passato e indifferente al futuro. Si tratta perciò di un agglomerato effimero di persone, tenute insieme dall’unica ragione dell’interesse materiale, senza un comune sentire e senza una condivisione di senso e di destino: cioè, in altri termini, senza alcuna Weltanschauung. Ma una società priva di una sua Weltanschauung non è una vera società, meno ancora può dare luogo ad una civiltà: è solo un accampamento temporaneo di individui che condividono la ricerca dell’utile, ma che contendono fra loro per la mancata definizione delle rispettive attribuzioni, e destinata a sciogliersi non appena fattori esterni o interni, anche di lieve entità, metteranno a repentaglio tale comune denominatore. E questo è ciò che si sta verificando. Ora che la modernità non è più in grado di assicurare un minimo di benessere a buona parte dei suoi membri, né una ragionevole speranza, essa si sta disgregando, perché gli individui-atomi che la compongono non sono più interessati alla sua sopravvivenza; in compenso arrivano altri individui-atomi, provenienti da altre civiltà, desiderosi di occupare le nicchie rimaste vuote per ritagliarsi uno spazio proprio, nel quale tentare la ricerca dell’obiettivo che fu dei loro predecessori indigeni: la conquista di un certo grado di benessere materiale, non collegato ad alcun preciso valore né ad un codice etico, e neppure a una gerarchia di funzioni. In un primo tempo, il trasferimento degli individui-atomi per ragioni economiche, nelle società occidentali, avviene dall’una all’altra di esse, da quelle più indebolite dalle difficoltà economiche a quelle ancora relativamente benestanti; la stessa tendenza si nota da parte degli imprenditori, i quali trasferiscono macchinari e processi produttivi da un Paese all’altro, in cerca del luogo più accogliente dal punto di vista della convenienza, sia per la sostenibilità della pressione fiscale, sia per l’economicità della manodopera. Ma questo primo passo verso lo sradicamento è già un primo passo verso la morte di quel modello di civiltà: perché una civiltà nella quale le masse si riducono a fattori intercambiabili ha perso il contatto con la propria ragion d’essere primaria e comincia a poggiare sul vuoto, sul nulla. In altre parole, la deterritorializzazione delle persone, del lavoro, del risparmio e del capitale è l’anticamera della disgregazione di una civiltà: gli individui, infatti, in una vera civiltà organica, non sono prodotti da esportazione, ma sono elementi di stabilità del tutto, proprio con il loro esserci, con il loro lavoro, con il loro risparmio, nel luogo dove sono nati e dove hanno ricevuto l’eredità morale dei loro genitori.

 

Ma c’è di più. Le tre funzioni basilari – sacerdotale, guerriera e produttiva – nella civiltà moderna si sono fuse, in un certo senso, in una nuova figura, assolutamente anomala rispetto a tutte le civiltà tradizionali: quella del tecnico. Il tecnico è un po’ sacerdote, nel senso che svolge le funzioni un tempo riservate ai medici-sacerdoti e agli astronomi-sacerdoti; un po’ guerriero, nel senso che costruisce e manipola armi potentissime, e sa pilotare, ad esempio, un aereo o un sommergibile con missili atomici; e un po’ produttore, nel senso che sa dirigere una grande banca o una multinazionale, ma anche semplicemente gestire un allevamento moderno o una coltivazione meccanizzata, che fa largo uso di prodotti chimici, richiede competenze tecniche più o meno sofisticate. Ma questa concentrazione di funzioni vitali nelle mani d’una sola categoria ha l’effetto di confondere i diversi piani dell’esistente: cadono le barriere fra il sacro e il profano, fra il militare e l’economico. Questo non è bene: si va verso un mondo ove non ci sono più confini riconoscibili fra cose diverse e quindi verso una visione relativista del reale, fondata su un approccio meramente empirico e utilitaristico. Diventa vero quel che è conveniente, e il superfluo si confonde col necessario. Cade la sobrietà e si entra nel consumismo distruttivo; ma una civiltà non sussiste se non ha ben chiaro cosa è essenziale.

 

Francesco Lamendola

 

Commenti
NuovoCerca
Solo gli utenti registrati possono inviare commenti!