Sulle élite contemporanee

14 Dicembre 2019

 

Da Rassegna di Arianna del 12-12-2019 (N.d.d.)

 

Nelle analisi della situazione sociale e politica attuale nei paesi avanzati, è ormai un dato acquisito l’esistenza di una particolare frattura sociale e culturale. Abbiamo da una parte un ceto, relativamente ristretto, di persone adattate alla nuova natura transnazionale del capitalismo contemporaneo: persone dotate di conoscenze e capacità (in primo luogo la conoscenza della lingua inglese, ma ovviamente non solo questo) che le rendono in grado di approfittare di occasioni di lavoro sparse in tutto il globo, prive di remore a spostarsi per approfittarne, impiegate in lavori a forte componente intellettuale e specialistica, capaci di tessere relazioni proficue con le persone più diverse, ma in sostanza appartenenti allo stesso milieu. Si tratta del ristretto ceto di coloro che si sono pienamente inseriti nei meccanismi del capitalismo globalizzato e sono in grado di approfittare delle possibilità che la sua dinamica crea. All’interno di questo ceto spiccano ovviamente i detentori del potere, quelli che si ritrovano a Davos e in simili occasioni; ma il ceto di cui stiamo parlando, pur ristretto, non è composto esclusivamente da uomini e donne di potere, ma da persone che condividono lo stile di vita e la visione del mondo degli attuali ceti dominanti. Per chiarezza terminologica, parleremo di “élite dominanti” intendendo la ristretta cerchia di chi detiene un potere effettivo (per ripeterci: quelli che si incontrano a Davos), mentre useremo l’espressione “ceti medi elitari” o “ceti medi globalizzati” intendendo quello strato sociale che abbiamo descritto nelle prime righe, minoritario ma più ampio rispetto ai “signori di Davos”. Parleremo infine di “élite contemporanee” intendendo l’insieme di questi due gruppi. Alle élite contemporanee si contrappone la parte largamente maggioritaria della popolazione, che ha visto in questi decenni il peggioramento delle proprie condizioni di lavoro e di vita e la perdita dei diritti conquistati nella fase “keynesiano-socialdemocratica” del capitalismo del secondo dopoguerra. Si tratta di ceti legati ad una dimensione di vita locale o al più nazionale, impegnati in lavori di scarsa qualificazione, non molto dotati delle competenze (linguistiche e culturali in generale) per muoversi nella “società globale”.

 

È noto che questa frattura sociale si esprime anche come frattura culturale e politica. I ceti del primo tipo sono in primo luogo sostenitori convinti dei processi di globalizzazione: possono magari ammettere che essa presenta anche dei problemi, ma tali problemi devono comunque essere superati mantenendone la sostanza; in secondo luogo aderiscono in genere alle ideologie mainstream in campo economico (sono cioè in sostanza liberisti, magari con sfumature diverse); in terzo luogo condividono in gran parte i dettami del “politicamente corretto”; infine, sul piano delle scelte politico-elettorali, esprimono in genere preferenze per la cosiddetta “sinistra moderata”, ma possono dare appoggio anche a personaggi almeno apparentemente nuovi come Renzi in Italia e Macron in Francia. I ceti del secondo tipo esprimono invece, in modo spesso confuso ma con forza crescente, un rifiuto di molti aspetti di ciò che chiamiamo “globalizzazione”, e questo rifiuto si esprime politicamente nell’appoggio a movimenti, partiti e leader ascrivibili alla destra, una destra che spesso viene qualificata come “populista” o “sovranista” per esprimere in qualche modo gli aspetti di novità che la contraddistinguono rispetto alla destra liberale classica.  Se questa è la situazione, è chiaro che essa può portare a dinamiche piuttosto pericolose, a scontri distruttivi e laceranti del tessuto sociale, fino a mettere in questione la stessa democrazia. Ci si aspetterebbe quindi una discussione franca e spassionata per capire come evitare tali esiti. E ovviamente le attuali élite, che hanno in media una formazione intellettuale di più alto livello rispetto ai ceti subalterni, dovrebbero dimostrare la propria superiore capacità intellettuale proprio in questo tipo di riflessione. Purtroppo si deve constatare che la reazione delle élite di fronte a questa situazione è spesso piuttosto infantile: le masse “populiste” vengono stigmatizzate come ignoranti, rozze, mentalmente limitate (e quindi intolleranti e razziste), fascistoidi. Ora, questi aspetti possono certamente essere una componente del “grande rifiuto”, da parte di fasce sempre maggiori della popolazione, verso l’attuale organizzazione sociale, ma non è questo il punto. Il punto è che una élite è tale se riesce ad avere capacità egemonica, cioè se riesce a collegare a sé la gran massa della popolazione subalterna offrendo un compromesso per il quale le masse accettano la propria subalternità ricevendo in cambio la possibilità di vivere una vita decente, protetta per quanto possibile dagli alti e bassi delle vicende storiche. La fase del capitalismo “keynesiano-socialdemocratico” è stata appunto una fase di egemonia di questo tipo: non c’era ovviamente nessuna rivoluzione nei rapporti di dominio, ma i ceti dominanti in quella fase hanno saputo costruire assieme ai ceti subalterni un compromesso soddisfacente, legando in maniera fortissima le masse a quella organizzazione sociale: è l’enorme capacità egemonica di quello che giustamente è stato chiamato “l’impero irresistibile” a costituire la base ultima dell’89, della vittoria finale del capitalismo sul suo antagonista storico. Il capitalismo occidentale aveva conquistato le masse, il socialismo orientale aveva prodotto una massiccia reazione di rigetto.

 

Se questo è chiaro, dovrebbe anche apparire chiaro come la reazione attuale delle élite alla disaffezione delle masse sia del tutto infantile: quello che è successo in questi decenni è la fine del compromesso “keynesiano-socialdemocratico”, e questa fine ovviamene implica anche la fine dell’egemonia basata su tale compromesso. Ma allora, invece di lanciare alle masse epiteti ingiuriosi, una élite degna di questo nome deve ricostruire una egemonia, e cioè proporre un nuovo patto sociale, un nuovo grande compromesso fra dominanti e dominati. Ma di questo non si vede oggi la minima traccia. L’attuale situazione fa allora pensare che ci troviamo in un caso standard di “revoca del mandato celeste”. Si tratta, come è noto, di una espressione ripresa dalla tradizione culturale cinese. In tale tradizione, il sovrano è tale perché ha ricevuto dal Cielo il mandato di ben governare la società, mantenendola in armonia con i grandi cicli del cosmo. Il sovrano è legittimo finché riesce in questo compito. Quando emergono, nella società o nella natura (realtà non drasticamente opposte, in quella tradizione culturale), evidenti segnali di disarmonia, di contrasti, di rottura degli equilibri cosmici, il sovrano è delegittimato e la rivolta è legittima. Si tratta di una impostazione culturale che non resta mera teoria ma si concretizza nelle tante rivolte che costellano la storia di quel grande paese, arrivando talvolta ad abbattere dinastie e a fondarne di nuove. Se sfrondiamo questa narrazione dagli aspetti culturali tipici del mondo cinese, affascinanti ma lontani dalla nostra mentalità, quello che resta è l’idea che il sovrano, il ceto dominante, deve mantenere una armonia fra i vari gruppi sociali, e se questa manca viene meno la legittimità del potere. Tale armonia non può che basarsi su un compromesso nel quale i ceti dominati ottengono la possibilità di vivere una vita decente, secondo i parametri di quel dato momento storico e quella particolare cultura. Nel mondo premoderno una vita decente era in sostanza una vita che mantenesse le stesse possibilità e disponibilità stabilite dalla tradizione. Nel mondo moderno, il mondo che ha inventato la nozione di “progresso”, nel concetto di “vita decente” vi è non solo la possibilità di accedere a un determinato livello di consumi, ma anche l’idea di un progressivo miglioramento, l’idea cioè che nel corso della vita di ciascuno il livello di vita si alzerà e i figli godranno di una vita migliore rispetto ai genitori. È evidente allora che il “trentennio dorato” 1945-1975 rappresenta appunto, come si diceva, un esempio di compromesso nel quale i ceti dominanti riuscivano a garantire una vita decente ai dominati, e ne ricavavano consenso ed egemonia. È altrettanto chiaro, e spiegato nei dettagli in una letteratura ormai imponente, che i decenni seguiti agli anni Settanta hanno rappresentato la revoca di quel compromesso: distruzione dei ceti medi, impoverimento dei ceti inferiori, aumento spettacolare delle disuguaglianze, fine dell’idea che i figli vivranno meglio dei genitori. I ceti dominanti hanno denunciato, nei fatti, il compromesso precedente, senza sostituirvi nessun progetto sociale che abbia le stesse capacità egemoniche. Hanno in sostanza tolto senza dare nulla e senza preoccuparsi della caduta verticale del consenso e della coesione sociale. E rispondono alla crescente rabbia sociale con disprezzo moralistico verso i ceti subalterni. Si tratta insomma di uno strato dominante che ha perso ogni capacità egemonica, e che sarà abbattuto se non riesce a riconquistarla, impostando un nuovo grande compromesso sociale. Il primo esempio storico che viene alla memoria è, ovviamente, la Rivoluzione Francese: nel 1789 in Francia è stato necessario abbattere il potere dei ceti aristocratici per costruire una nuova società; ma anche nella storia cinese è stato più volte necessario che le rivolte contadine contribuissero ad abbattere dinastie per lasciare spazio a nuovi gruppi dominanti. E non ha ovviamente nessuna importanza che i ceti da abbattere siano quasi sempre più colti e raffinati dei rivoltosi che li abbattono […]

 

Quanto abbiamo fin qui detto delinea in fondo una storia piuttosto banale: un tipo di compromesso sociale, che ha funzionato per un periodo, entra in crisi, le élite non sanno inventarsi un diverso tipo di compromesso e si limitano ad approfittare della propria posizione di potere per accumulare benefici ostentando disprezzo per i ceti subalterni i quali, privati a poco a poco di quanto ottenuto in precedenza e in mancanza di prospettive di un nuovo compromesso, iniziano lentamente a contestare le élite. Proprio l’incapacità delle élite di inventare un nuovo compromesso, e il loro rifugiarsi nel disprezzo di classe, mostrano con evidenza che esse non hanno più le capacità egemoniche necessarie al loro ruolo, e fanno quindi prevedere che esse saranno abbattute e sostituite con nuove élite. Tutto questo, lo ripeto, è fondamentalmente banale, uno schema già visto tante volte. Ma la situazione attuale non si limita a questo momento di “ripetizione”, ma presenta aspetti nuovi che ci spingono a delineare prospettive molto più drammatiche di una semplice rivoluzione, per quanto cruenta. La novità che sta emergendo con tutta evidenza nei giorni attuali è il disastro ecologico al quale ci sta portando l’organizzazione sociale attuale, cioè il capitalismo esteso ormai a tutto il globo. Siamo di fronte alla prospettiva del crollo catastrofico dell’attuale civiltà. Nel giudizio da dare sulle attuali élite globalizzate è allora da qui che bisogna partire: dal fatto che l’attuale organizzazione di economia e società ci sta portando verso un disastro di proporzioni mai viste nella storia umana.  Le élite del capitalismo globale hanno pesantissime responsabilità in questa situazione. […] ovviamente un qualsiasi tipo di trattato sulla limitazione delle emissioni, se venisse davvero applicato, rappresenterebbe un vincolo all’espansione illimitata del capitale nella sua ricerca spasmodica del profitto. […]

 

Si potrebbe obiettare che tutto questo riguarda il passato, che oggi finalmente esiste un consenso, anche fra i ceti dominanti, sulla necessità di risolvere il drammatico problema del riscaldamento globale. Sembra in effetti che negli ultimi anni si sia prodotto un cambiamento di questo tipo, che davvero una parte almeno dei ceti dominanti si sia convinta del fatto che la catastrofe annunciata da tempo sta arrivando, e che essa mette in questione anche il loro potere, i loro redditi, e forse persino le loro vite, assieme naturalmente a quelle di masse sterminate di altri esseri umani. Il punto fondamentale è però che le élite non intendono rimettere in discussione il modo di produzione capitalistico, e quindi le misure che forse riusciranno a prendere per combattere il cambiamento climatico non potranno essere decisive, anche se, eventualmente, riusciranno a rinviare per qualche tempo, magari per qualche decennio, il crollo dell’attuale civiltà. Facciamo solo un esempio: Greta Thunberg si è recata all’ONU, a New York, viaggiando su una barca a vela. Questa scelta non ha solo un carattere simbolico. Il suo significato è che davvero, se vogliamo salvarci, dobbiamo rinunciare ai viaggi in aereo e all’uso di navi a motore. Ma è pensabile l’attuale organizzazione economica, l’attuale capitalismo globalizzato, senza la fitta rete di scambi commerciali che utilizzano massicciamente motori spinti dall’energia dei combustibili fossili? Ovviamente no, e l’unica possibilità è allora lo smantellamento dell’attuale capitalismo globalizzato e la ricostruzione di forme di economia molto più localizzate, con una rete di scambi ridotta per volume ed estensione. La domanda è ovvia: le attuali élite globalizzate progettano seriamente qualcosa del genere? Prospettano in qualche modo la necessità di ridurre gli scambi commerciali globali? Ovviamente no, e questo esempio mostra come l’attuale conversione dei ceti dominanti (o almeno di una loro parte significativa) alle tematiche del “climate change” non sia tale da cambiare la direzione catastrofica nella quale l’attuale società si sta muovendo. È allora questa la novità storica con la quale dobbiamo confrontarci, nel giudizio sulle élite contemporanee: per la prima volta nella sua storia l’umanità si trova di fronte alla possibilità concreta del crollo dell’intera società umana mondiale. Si tratta di un evento che è difficile anche solo da pensare, e che, se dovesse realizzarsi, porterebbe sofferenze e orrori quali mai si sono visti nella storia umana. […] Ma è anche evidente che, se questo orrore arriverà, le attuali élite verranno deprecate dai sopravvissuti come gli esseri più orribili dell’intera storia umana. Appariranno, appariremo, espressione di una inaudita malvagità. Una malvagità oggettiva, s’intende: non stiamo parlando delle soggettività dei singoli.  E questa è dunque la conclusione delle riflessioni fin qui svolte. Non c’è dubbio che le attuali élite siano composte di persone educate, tolleranti, colte. Ma questo non ha nessuna importanza, come non aveva nessuna importanza quanto fossero educati, tolleranti e colti gli aristocratici francesi a fine ‘700. Al momento del crollo, se crollo sarà, le attuali élite globalizzate, con tutta la loro tolleranza, educazione, cultura, riveleranno di essere nient’altro che una nuova manifestazione della banalità del male.

 

Marino Badiale

 

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